4 Novembre '18, quando l'Italia uscì dalla trincea

santa

Non era trascorso nemmeno un anno dalla vittoria italiana nella Prima guerra mondiale quando si decise di istituire, per la data del 4 novembre, una festa nazionale che ricordasse il successo ottenuto dall'esercito regio nel conflitto che spense, di fatto, le illusioni dell'onnipotenza umana maturate nel corso dell'800. Vittoria o meno, quel giro di boa pose fine a tutto quello che di effimero era stato creato dalla cultura positivista della Belle Epoque, della Seconda rivoluzione industriale e di tutto il crepuscolare decadimento degli ideali che avevano accompagnato il lungo secolo XIX, un percorso così denso da sfociare in un confronto che mise per la prima volta l'umanità di fronte ai frutti delle proprie convinzioni. A sancire il trionfo italiano non fu tanto la Battaglia di Vittorio Veneto, capace sì di ribaltare le sorti di un esercito spaccato a metà dall'incursione austriaca sull'Isonzo, ma tutt'altro che in grado di regalare ai soldati al fronte anche solo l'illusione che il momento di deporre fucili e baionette fosse arrivato. Servì il Bollettino della vittoria a scacciare i fantasmi, con il Generale Diaz a parlare dell'esercito austro-ungarico con l'immagine di “resti in disordine e senza speranza” intenti a risalire “le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Una guerra vinta dunque, a quale prezzo e in virtù di cosa è tutt'altro discorso.

I due bollettini

Nel Bollettino della vittoria il Generale Diaz specificò chiaramente come e quando l'Italia intraprese la sua guerra, che “iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi”. Quasi quattro anni, duri, sanguinosi, combattuti da un'armata che, per stessa ammissione del Comandante supremo del Regio esercito, era “inferiore per numero e per mezzi”. Eppure la gloria della vittoria dovette da subito fare i conti con un altro bollettino, quello dei caduti: oltre 9 milioni di morti, solo sui campi di battaglia, in trincea o nelle terre di nessuno. Mai una guerra era costata così tanto e, finora, aveva coinvolto le popolazioni civili, che di caduti dovettero contarne circa 7 milioni. Quella civiltà che così a lungo e così freneticamente aveva pensato a crescere durante il secolo precedente aveva improvvisamente staccato la luce, dando spazio a quel sonno fisiologico sfociato nella resa dei conti di polveriere geopolitiche che l'espansionismo esasperato dell'800 aveva irrigato quasi senza accorgersene.

L'interventismo

L'Italia che uscì dalla Grande guerra non era un Paese poi così diverso da quello che vi era entrato, nonostante la vittoria conferì il momentaneo prestigio portato dalla sensazione di un percorso definitivamente compiuto, quello del Risorgimento, con l'ingresso di Trento e Trieste nei confini italici. All'ingresso in guerra, però, aveva contribuito l'oppressione di una campagna interventista che riuscì a mettere da parte la limitata dotazione dell'esercito italiano e a piegarsi ai barlumi di gloria paventati dall'entrata in quello che andava delineandosi come il più grande conflitto di tutti i tempi. Slanci di passione patriottica che sembrano quasi rivivere in un avviersario che, invece, dovrebbe indurre più che altro a riflettere su quanto e per cosa 400 mila giovani italiani caddero al fronte. E, nondimeno, sulla repressione degli organi di stampa che fecero pressione affinché la libera opinione potesse contrastare il sentimento bellico che andava diffondendosi. In un lasso di tempo fin troppo breve chiuse “La Pace”, la rivista di Ezio Bartalini vessata e repressa all'alba dell'entrata in guerra, con il suo direttore al quale non resta altro che l'obiezione di coscienza davanti all'arruolamento forzato, in direzione di una linea di battaglia che parla di un esercito costretto a procedere a spallate sull'Isonzo, prima che l'andata a vuoto a Caporetto consenta allo Stato maggiore di comprendere che la linea dura non testa il coraggio o la dedizione dei soldati, ma ne sacrifica la vita in nome dell'effimera audacia.

L'inutile strage

Eppure la Grande guerra fu questo: un teatro di repressione vicendevole e ferocia, nel quale la storia non parlava di combattimenti epici o battaglie eroiche ma di un'applicazione delle nuove tecnologie all'annientamento reciproco, di buchi malsani scavati nel terreno e spacciati per avamposti di una guerra di posizione. In questo contesto, anche Papa Benedetto XV e la sua opera di mediazione, che vide il suo culmine nella Nota ai Paesi belligeranti, rimasero inascoltati, almeno durante il conflitto. Andarono a vuoto i suoi appelli sull'inutile strage, i suoi discorsi e i suoi messaggi per arrivare quantomeno a una trattativa diplomatica. Il tutto mentre i reparti inglesi e tedeschi venivano costretti ad assalti nel giorno di Natale per aver dato luogo alla Tregua del 24 dicembre 1914, quando le terre di nessuno divennero improvvisati campi di calcio e un luogo per fumare assieme una sigaretta e recuperare i corpi di chi vi aveva perso la vita. La sensazione strisciante è che nessuno di loro fosse davvero consapevole del perché stesse combattendo, quasi stupito di trovare nella trincea opposta altri ragazzi con i quali l'unica differenza era la lingua. “Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa”, spiegava Emilio Lussu nel suo libro di memorie, “Un anno sull'altipiano”. Anch'esso vessato dalla critica che lo considerava, come altri diari, un deterrente alla vittoria del 1918 e a quella realtà fatta di sangue, decimazioni e attese spasmodiche in trincea che aveva richiesto al Regio esercito forse più coraggio di una spallata contro le postazioni austriache sul Carso, e invece utilizzata come punto di gloria per un Paese in cui le impressioni, già all'indomani, fossero quelle di una società che aveva fretta di dimenticare.

Anche per questo il 4 novembre non può essere considerata una festa ma una commemorazione. Di una vittoria, sì, ma costretta a tenere conto del prezzo pagato più che del risultato ottenuto.