Ilaria Alpi, 26 anni aspettando la verità

La giornalista Rai, assieme al suo operatore Miran Hrovatin, vennero assassinati nel 94 a Mogadiscio. In circostanze tuttora rimaste oscure

Due interventi paralleli di entrambi i presidenti delle Camere, nel giorno in cui, in pieno Covid-19, è necessario trovare uno spazio per il ricordo della strage di Mogadiscio. Quella che stroncò la vita e il lavoro di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, 26 anni fa esatti, trucidati al km 4, di fronte al Sahafi Hotel della capitale somala, dove alloggiavano in qualità di inviati. Un delitto avvenuto in piena inchiesta, mai chiarito nonostante le indagini, più volte rallentate, troppe volte a un passo dall’archiviazione senza giustizia. Per oltre venticinque anni quella verità l’ha cercata Luciana, la mamma di Ilaria, scomparsa lo scorso anno dopo una vita trascorsa combattendo perché la giustizia non considerasse chiuso il caso della morte di sua figlia. E affinché si facesse piena luce sui presunti depistaggi. Quelli di cui parlò nel suo ultimo libro, Esecuzione con depistaggio di Stato. Con un sottotitolo forse ancor più significativo: “L’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, e le manovre per nascondere killer e mandanti”. La presentazione arrivò il 6 luglio del 2017, tre giorni esatti dopo la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma.

La revisione del processo

Di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si torna a parlare ogni 20 marzo, con l’impressione che il punto di partenza sia sempre lo stesso, tra appelli per la non archiviazione e la richiesta simbolica di far piena luce sul loro omicidio. E magari a capire qualcosa in più dell’inchiesta che conducevano, traffico d’armi e di rifiuti tossici dislocati in Africa. Ci fu una condanna, nel 2000: quella di Hashi Omar Hassan, che tale Ahmed Ali Rage, detto “Gelle”, giurò di aver visto alla guida della Land Rover che portò gli assassini di fronte ai due giornalisti. Hassan, riconosciuto colpevole, scontò 17 dei 26 anni di condanna, prima di essere assolto nel 2016, quando i magistrati riconobbero l’inattendibilità del teste, letteralmente scomparso dal 23 dicembre 1997, giorno in cui formulò l’accusa, fino al 2015, quando fu rintracciato e contribuì con le sue rivelazioni a far riaprire il processo.

Impegno per la verità

Sostanzialmente ci si è fermati lì. Riconoscendo l’estraneità di Hassan (dopo 17 anni di reclusione) e con un’indagine sospesa fra le richieste di chi preme, come fatto per anni da Luciana Alpi, per una chiarezza definitiva e chi per l’archiviazione di un caso che, a distanza di 26 anni, rischia di non avere né un nome né un volto di colpevolezza. In mattinata, la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha ricordato i due giornalisti uccisi, raccontandoli come “cercatori di verità che pagarono con la vita la dedizione alla professione e il coraggio di raccontare ciò che altri non raccontano”, augurandosi che “venga fatta piena luce sul loro brutale assassinio e resa giustizia alla memoria di due martiri della libertà di stampa”. E anche il capo di Montecitorio, Roberto Fico, assicura impegno costante per cercare la verità e per “avviare una nuova procedura di interpello alle autorità competenti per la declassificazione di atti che riguardano questa tragica vicenda”. Con la speranza che ventisei anni di ombre siano bastati affinché non si arrivi a un epilogo effimero.