Usa-Filippine, scontro sull'oppositrice incarcerata

Due senatori statunitensi sono stati messi al bando dalle Filippine che hanno anche minacciato di introdurre restrizioni ai visti per gli americani se Washington andrà avanti con le sanzioni contro i responsabili dell'incarcerazione di una leader dell'opposizione filippina. Al centro della querelle diplomatica c'è la senatrice Leila De Lima, tra i principali oppositori della “guerra alla droga” del presidente Rodrigo Duterte, detenuta dal febbraio 2017 con l'accusa di essere legata al narcotraffico.

Mobilitazione globale

Negli ultimi mesi, in tutto il mondo, centinaia di associazioni hanno aderito alla campagna globale contro la “guerra alla  droga” di Rodrigo Duterte.  “Da quando Duterte si è insediato nel giugno 2016 come presidente delle Filippine, la polizia e i vigilantes hanno assassinato fra 12.000 e 28.000 presunti utilizzatori e rivenditori di droga in una campagna sanguinaria di uccisioni extragiudiziali- sostengono i promotori della mobilitazione-. Duterte, che ha ripetutamente promesso di uccidere centinaia di migliaia di persone, e che si è vantato di aver ucciso persone lui stesso, è sotto indagine preliminare da parte della Corte Penale Internazionale per presunti crimini contro l’umanità. A febbraio 2018 una protesta è stata organizzata da StoptheDrugWar.org all’ambasciata filippina a Washington nel primo anniversario dell'incarcerazione della senatrice Leila de Lima, critica di Duterte. Un video dell’evento, che contrapponeva frontalmente Duterte e De Lima, è diventato virale nell’area di Manila con oltre 470 mila visualizzazioni.

Convenzioni internazionali

Sono seguite molte altre iniziative in tutto il mondo per la democrazia e i diritti umani nelle Filippine. Coinvolti nelle manifestazioni oltre a Duterte e la sentarice De Lima, altre figure come il senatore Antonio Trillanese e l’editore di Rappler, Maria Ressa, “Persona dell’anno” di Time per il 2018. La de Lima, Trillanes e la Ressa sono coinvolti in vari procedimenti avviati dall’amministrazione Duterte. La mobilitazione chiede, tra le altre cose, l'applicazione delle disposizioni previste dalle convenzioni internazionali per il pieno rispetto dei diritti umani. Azioni collegate si sono svolte a Oslo, Norvegia e Freetown, Sierra Leone.  La senatrice Leila De Lima ha sempre professato la sua innocenza, sostenendo di essere vittima di persecuzione politica. Per questa ragione, due senatori americani – Richard Durbin e Patrick Leahy – hanno portato avanti un'iniziativa per impedire l'ingresso negli Usa ai responsabili dell'incarcerazione. “Se questa misura verrà attuata, saremo obbligati a richiedere a tutti gli americani che entrano nel Paese di ottenere un visto in precedenza”, ha sottolineato il portavoce del presidente. “Non staremo pigramente a guardare se continuano a interferire nei nostri affari interni come nazione sovrana”

Il tragico passato

Andal Ampatuan Junior e quattro altri uomini del suo potente clan sono stati condannati la settimana scorsa a trenta anni di carcere dopo essere stati riconosciuti colpevoli dell'uccisione di 58 persone nel sud delle Filippine nel 2009, in quello che è stato il peggiore massacro compiuto nel Paese su base politica. Era il 23 novembre del 2009 quando 58 persone, tra cui 32 giornalisti che viaggiavano in convoglio nella provincia di Maguindanao sull'isola di Mindanao, sono rimasti vittima di una imboscata. Sono stati uccisi e i loro corpi gettati in una fossa comune. Le accuse sono subito state rivolte contro il clan Ampatuan e ora Andal Ampatuan Junior è stato riconosciuto da un tribunale di Manila come la mente del massacro. Tra le vittime anche la moglie del leader politico musulmano filippino Esmael Mangudadatu. Dopo la strage, l'allora presidente Gloria Macapagal-Arroyo aveva dichiarato lo stato di emergenza nelle province di Maguindanao e Sultan Kudarat e a Cotabato City. La stessa ex presidente è accusata di aver autorizzato gli Ampatuan a crearsi una propria milizia armata privata di un migliaio di uomini per gestire l'insurrezione dei musulmani nella regione in cambio del loro sostegno politico. Il massacro, evidenzia Adnkronos, aveva suscitato l'indignazione internazionale e aveva acceso i riflettori sui potenti e intoccabili clan locali che agivano senza rispettare le regole dello Stato di diritto. Le famiglie delle vittime hanno continuato ad accusare di corruzione la giustizia. All'epoca, l'allora ministro della Giustizia Agnes Devanadera aveva denunciato che i corpi delle donne uccise erano stati mutilati. Al momento della strage il patriarca della famiglia sotto accusa, Andal Ampatuan Senior, era governatore e voleva consegnare il potere al figlio. La decisione di un clan rivale di contestare la decisione, portò il clan a decidere di compiere il massacro. Negli anni di indagine per giungere alla sentenza odierna, Andal Ampatuan Senior, così come altri sette imputati, sono morti.