“Una guerra tra Israele e Iran? Non la vuole nessuno, ma..”

Alla creazione dello Stato di Israele si è arrivati attraverso un processo lungo, che non fu né semplice, né lineare. Ed è stata proprio questa complessità fatta di stravolgimenti, rapidi capovolgimenti di fronte e tentativi di alleanze a porre le basi del conflitto arabo-israeliano e di alcuni problemi che ancora oggi caratterizzano la regione mediorentale”.

Lorenzo Marinone, analista del desk per il Medio Oriente e il Nord Africa del Centro studi internazionali, parte da quel 14 maggio del 1948, giorno della fondazione dello Stato ebraico per raccontarci il Medio Oriente di oggi. Una premessa storica necessaria se si vuole capire l'infinita crisi di una regione che continua essere considerata la “polveriera del mondo“. 

“Le forze che operarono nei decenni precedenti al '48 seguirono direttrici diverse. Da un lato c'era quella che sarebbe diventata la componente israeliana, cioè la diaspora ebraica, capace di darsi strutture autocefale, dall'altro la parte palestinese che, per diversi motivi, non raggiunse lo stesso livello di organizzazione e pianificazione. Di conseguenza allo scadere del mandato britannico sulla Palestina mentre la parte israeliana, grazie alle sue istituzioni, fu in grado di farsi Stato, quella araba non ci riuscì”.

E arriviamo a oggi, ai venti di guerra che soffiano sul Medio Oriente. E' di pochi giorni fa la notizia di un nuovo raid israeliano contro istallazioni militari iraniane in Siria…
“Non è la prima volta che accade, anche in passato Tel Aviv ha colpito postazioni iraniane in Siria. Come non è una novità, ovviamente, il sostegno militare di Teheran e di Hezbollah alle truppe di Bashar Al Assad. Ciò che sta aggravando la crisi è, semmai, l'andamento della guerra in Siria con la probabile vittoria del regime di Damasco e dei suoi alleati. L'evoluzione del conflitto ha rafforzato la presenza dell'Iran nella regione. Non ci sono più, per capirsi, solo gli Hezbollah nel sud del libano ma anche i pasdaran a ridosso del Golan. A preoccupare Tel Aviv è la disponibilità, da parte di Teheran, di buona parte del territorio siriano. E nel momento in cui l'Iran può contare su nuovi depositi, siti industriali e di assemblaggio di sistemi d'arma per il Israele il contenimento di Teheran diventa molto più difficile”. 

Esiste il rischio di un conflitto a viso aperto tra lsraele e Iran con possibile escalation a livello globale?
“Nessuno dei due Paesi lo vuole. Non conviene a Israele, per il quale una guerra di questo tipo sarebbe particolarmente impegnativa. E non conviene nemmeno all'Iran, visto che la sua attività di consolidamento in Siria è ancora in corso. A differenza di quanto avviene nel sud del Libano, dove l'influenza di Teheran può contare sull'ampio consenso che ruota attorno a Hezbollah. Per questo un'eventuale guerra oggi sarebbe controproducente. Certo, ciò non toglie che possa scoppiare lo stesso…

In che senso?
“Pensiamo al conflitto con Hezbollah del 2006, nessuno lo voleva ma esplose lo stesso perché l'escalation sfuggì di mano. A posteriori entrambe le parti si pentirono, nonostante si fossero tutte e due proclamate vincitrici. Una cosa paradossale, se ci pensa… Ecco, è possibile che, a fronte di uno di questi attacchi possa seguire una rappreseglia capace di portare a una guerra a viso aperto, prolungata e sostenuta. Pensiamo a cosa accadrebbe se, ad esempio, un caccia israeliano venisse abbattuto, cadesse in territorio siriano e il pilota fosse catturato… Potrebbe essere un casus belli e in quel caso è ragionevole pensare che altre parti possano intervenire. Però mi lasci aggiungere una cosa…”

Dica…
“Ci sono attori nel teatro mediorientale che si trovano in una posizione che se da una parte può sembrare scomoda dall'altra offre notevole libertà di manovra. Mi riferisco in particolare alla Russia. Il dialogo con Israele non è mai venuto meno, e oggi è più forte che mai. Lo dimostra la presenza di Netanyahu a Mosca in occasione della Festa della Vittoria del 9 maggio. Nello stesso tempo i russi sono i principali alleati di Assad e delle forze lealiste. Questi due elementi li mettono nelle condizioni di poter esercitare un importante ruolo di mediazione, affinché le tensioni non raggiungano mai un punto di non ritorno. In caso di guerra aperta Mosca giocoforza dovrebbe prendere posizione, ma avendo interessi da una parte e dall'altra è piuttosto probabile che interverrebbe nel ruolo di pompiere. Del resto oggi la piorità della Russia è la stabilizzazione della Siria, per evitare di dover nuovamente intervenire laddove le cose tornino a peggiorare”. 

Se Putin fa l'arbitro, Trump cosa fa?
“La posizione americana è molto più netta. Trump ha recuperato i rapporti con Tel Aviv, che durante l'era Obama avevano raggiunto i minimi storici, è uscito dall'accordo sul nucleare iraniano e ha rafforzato le relazioni con l'Arabia Saudita. Tutti fattori ostili a Tehran e alla sua influenza. Bisogna, tuttavia, vedere quale sia l'effettiva disponibilità degli Stati Uniti a impegnarsi nella regione. Oggi Washington ha ancora una presenza militare di qualche migliaio di uomini nella Siria nordorientale in appoggio alle forze curde. Non è scontato che gli Usa rimangano né che possano svolgere un ruolo diplomatico di primo piano. Ci sono segnali che sembrano manifestare la volontà americana di uscire da questa situazione una volta create le condizioni favorevoli ai propri alleati”. 

Oggi l'ambasciata americana in Israele verrà spostata a Gerusalemme. La Casa Bianca è entrata a gamba tesa nella questione e ogni venerdì ne vediamo le conseguenze a Gaze e in Cisgiordania…
“Non vedo nei venerdì di protesta palestinesi la massima espressione della rottura di equilibri nell'area, pur avendo il loro peso. Il problema principale è rappresentato dalla situazione precaria di Hamas che, paradossalmente, mai come ora ha avuto bisogno di Israele. Per Hamas il pericolo principale è rappresentato da Fatah che può pregiudicarne la sopravvivenza, avendo il potere per concludere l'embargo nei confronti della Striscia di Gaza”.

Qual è la strategia di Trump? 
“Una strategia chiara, al momento, è difficile da delineare. Ci sono degli indizi che, se messi insieme, possono indurre a pensare che Trump stia provando a imitare quanto fatto per decenni da Israele. Cioè portare avanti una politica del fatto compiuto. La logica seguita potrebbe allora essere quella di aver imposto un passaggio per evitare che la questione relativa a Gerusalemme continuasse a essere una minaccia, un ostacolo, per i negoziati. Un pretesto per farli saltare, come avvenuto con Arafat. Quanto sia lungimirante, come scelta, lo vedremo più avanti. Di sicuro la decisione di Trump su Gerusalemme mette gli Stati Uniti in una posizione che non può più essere quella di mediatore riconosciuto da entrambe le parti in causa. Ruolo svolto per almeno due decenni e che ha portato, fra le altre cose, agli accordi di Oslo. Di conseguenza ora non solo manca qualcuno (e non può essere Abbas) che sia la controparte di Israele, ma anche una figura in grado di riprendere in mano un processo diplomatico interrottosi con la seconda intifada”.

L'Unione europea può colmare quel vuoto? 
“Sicuramente si aprono degli spazi, non solo per l'Ue come organizzazione sovranazionale ma anche per i singoli Stati europei. Teniamo presente, ad esempio, l'attivismo su molti fronti del presidente francese Macron. Diversi Paesi, come la Francia, possono tentare di agire per contare di più e difendere i propri interessi nell'area. Di sicuro si parte da molto indietro sul fronte del processo di pace. Ma è anche vero che gli equilibri nell'intera regione mediorientale stanno cambiando e che un certo tipo di unilateralismo oggi forse non è più possibile. In questo senso quel multilateralismo incarnato dall'Unione europea può essere la ricetta per far ripartire un dialogo fra israeliani, palestinaesi e mondo arabo”.

Torniamo su Israele. La maggiore aggressività nei confronti dell'Iran sembra premiare Netanyahu, dato in ripresa nei sondaggi dopo gli scandali giudiziari che hanno coinvolto familiari e stretti collaboratori. Come arriva l'attuale premier all'appuntamento elettorale di fine 2019? 
“Innanzitutto bisognerà vedere se, effettivamente, si voterà a fine 2019. Fino a pochi mesi fa, infatti, è stata ventilata l'ipotesi di elezioni anticipate con l'obiettivo di non ridurre ulteriormente il consenso attorno a Netanyahu dopo gli scandali che ha ricordato. Sicuramente l'atteggiamento più intransigente nei confronti dell'Iran e dei problemi del Medio Oriente sta premiando Netanyahu in termini di apprezzamento tra gli israeliani. Dall'altro lato, tuttavia, senza un consenso interno di un certo tipo è difficile sostenere determinate posizioni. Vanno poi aggiunti due fattori. Il primo è che l'attuale premier ha vissuto una lunga stagione politica in una fase in cui l'elettorato israeliano si è progressivamente spostato su posizioni di destra, riducendo ai minimi storici il partito laburista. Il secondo è che, all'esito di questa stagione in cui Netanyahu è stato il punto di riferimento dell'ala destra della Knesset, sia inevitabile un cambio generazionale sinora impedito. Penso a figure come Naftali Bennet che scalpitano e si candidano a sostituire Netanyahu. Il quale è da anni sotto attacco da destra, da parte di personaggi come Avigdor Lieberman e, appunto, Bennet. Tutte le decisioni adottate in queste anni hanno avuto anche l'obiettivo di tenere a bada questa parte politica”.