Trump e il rischio mediorientale

Da qualsiasi punto di vista la si guardi, la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele ha assunto proporzioni storiche. Da un lato perché, rispolverando il Jerusalem embassy act del 1995 il Tycoon ha capitalizzato ventidue anni di rinvii per timori di forti ripercussioni geopolitiche, dall'altro perché, visto dal lato arabo (e non solo), l'annucio arrivato da oltreoceano rischia di sconvolgere non poco i delicati equilibri che hanno finora retto a stento in Medio Oriente. Anche per questo le parole del presidente degli Stati Uniti sono state ascoltate con estrema attenzione da praticamente tutti i leader mondiali: lo scetticismo generale che aveva accompagnato la scelta di Washington fin dalle prime notizie circolate in merito è stato confermato dalle reazioni, pressoché univoche, arrivate dopo il fatidico discorso prenatalizio alla Casa Bianca.

Hamas: “Aperte le porte dell'inferno”

Per Donald Trump, quest'oggi si è riconosciuto l'ovvio, ossia che “Gerusalemme è la capitale di Israele” e che quest'ultimo, in quanto Stato sovrano, ha tutto il diritto di scegliersela. Il problema è che, pur lasciando aperto il discorso di una soluzione a due Stati per risolvere il conflitto israeliano-palestinese, Trump ha di fatto glissato su un trascorso storico che, ancora oggi, continua ad avere risvolti non indifferenti sul sentimento di molti gruppi etnici dell'area mediorientale. E non solo, ovviamente: anche i nuclei fondamentalisti, in un certo senso, potrebbero cavalcare il sentimento di malcontento scaturito dalla pubblica dichiarazione del presidente e farvi leva per tornare a raccogliere consensi. Del resto, a scaldare gli animi nell'area palestinese ci aveva già pensato Hamas, la quale ha specificato prontamente che la decisione di Trump equivale all'apertura delle porte dell'inferno. Ma, tralasciando il sentimento della Palestina, direttamente interessata, a puntare gli occhi su Gerusalemme è un po' tutto il mondo arabo, concorde nell'indicare la città come uno dei luoghi sacri dell'Islam e tutt'altro che propenso a correre qualsiasi rischio: da qui, le immediate e stizzite reazioni in serie di Turchia e Iran (anche per bocca di Rohani, inflessibile su questo punto).

Disappunto unanime

In sostanza, il sasso lanciato da Trump rischia di provocare una serie di onde dagli effetti ben più potenti di quanto fosse lecito aspettarsi: da un lato, infatti, ad amplificare la già forte risonanza del suo breve discorso hanno contribuito le parole entusiaste di Benjamin Netanyahu, dall'altro resiste la concreta possibilità che lo status di capitale riconosciuto da Washington possa rappresentare il colpo finale alla stabilità di quella che, al momento, può essere a tutti gli effetti definita come una polveriera. Trump, da parte sua, invoca la benedizione per entrambi (Israele e Palestina) ma dovrà fare i conti, probabilmente presto, con il serpeggiante e profondo clima di incertezza anche fra i Paesi che, storicamente, degli Stati Uniti sono alleati. E, al contempo, con un atteggiamento di disappunto da parte degli altri capi di Stato delle Nazion Unite, da Emmanuel Macron che ha etichettato il tutto come “deplorevole” a Paolo Gentiloni, il quale ha chiesto di insistere “sul processo di pace basato sui due Stati, Israele e Palestina”.

Dure reazioni

Per ora, dunque, le reazioni si sono limitate a dichiarazioni a effetto e note di disappunto pressoché comuni non solo da parte mediorientale. Ma, probabilmente, è solo il primo atto. L'Onu, in questo senso, già critico sulla dichiarazione unilaterale, ha insistito perché la questione di Gersualemme venga risolta fra i due diretti interessati e non da terze parti. In realtà, questo è un momento abbastanza favorevole all'operato di Donald Trump, in debito di consensi e, da qualche giorno, nuovamente protagonista di importanti successi politici, coincidenti con le promesse fatte in campagna elettorale: va ricordato che, solo un paio di giorni fa, il Congresso aveva dato l'ok allo stop dei viaggiatori provenienti da 6 Paesi a maggioranza musulmana. Di sicuro, dall'altra parte, proseguono i vari endorsement anti-Tycoon la cui decisione, secondo il presidene palestinese Abu Mazen, “equivale a una rinuncia da parte degli Stati del ruolo di mediatori di pace”. Lo stesso che The Donald ha rivendicato nel suo breve ma decisivo discorso: la questione, a questo punto, sarà capire quale sarà reazione araba, tra minacce di intifada e dimostrazioni di contrarietà, con Hamas ad annunciare la messa a ferro e fuoco delll'area. A partire da venerdì.