Tra polemiche e divisione la strada per la pace in Colombia è in salita

Colombia

E adesso? Che succederà in Colombia dopo il referendum che il 2 ottobre scorso ha bocciato, sia pur di misura (il 50,23% di circa 13 milioni di votanti, meno del 40% degli aventi diritto), l’accordo di pace sottoscritto tra il governo e le Farc? Impossibile fare previsioni, soprattutto dopo una sconfitta elettorale che quasi nessuno pronosticava, almeno al di fuori dello Stato sudamericano. E’ certo è che il Nobel conferito al presidente Santos rappresenta un sostegno al processo di pace. Ma la strada è tutta in salita e quello che manca è il tempo. Ne sono convinti gli analisti e lo sa perfettamente Santos, il quale si è rimesso subito al lavoro. Il presidente ha detto senza mezzi termini che impiegherà tutto il periodo che gli resta fino alla fine del mandato (si voterà nel 2018) quasi esclusivamente per trovare un nuovo accordo. Per questo la prima cosa che ha fatto il suo governo è stato recepire i motivi che stanno dietro il no alla ratifica dell’accordo con le Farc. Una fase che si conclude giovedì 20 per consentire alla squadra di negoziatori di tornare all’Avana con le nuove proposte e verificare cosa è possibile modificare, cosa si può aggiungere e cosa togliere dalle 297 pagine che compongono un’intesa raggiunta dopo un anno e mezzo di contatti preliminari e quattro di trattative.

Le ragioni del no

Fonti del governo colombiano sottolineano una cosa: la Colombia non ha detto no alla pace, come troppo semplicisticamente viene affermato in Europa. Nessuno chiede che sia respinto l’accordo tout court. E le Farc, dal canto loro, si sono pubblicamente dichiarate disponibili a sedersi al tavolo per ascoltare le osservazioni dei sostenitori del no. Ci sono punti seri, validi ma ci sono anche parecchie criticità. Così il Partito democratico ha i suoi motivi per dire no, il Partito conservatore idem ed anche le Chiese, soprattutto quelle evangeliche della “galassia postpentecostale”, hanno i loro. Senza dubbio, sul piano politico il no più pesante è quello dell’ex presidente Alvaro Uribe. Spiega il prof. Gianni La Bella, docente di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia, che ha seguito le trattative di pace per conto della Comunità di S. Egidio: “E’ diverso l’approccio. Santos riconosce che c’è un conflitto e dunque serve una giustizia di emergenza. Secondo Uribe, invece, le Farc sono una banda di insorti che va punita e basta”. Comprendere la complessa situazione colombiana, in effetti, è tutt’altro che semplice. Basti ricordare che lo stesso padre di Uribe fu ucciso dai guerriglieri. Ed è altrettanto chiaro che la sua opposizione all’accordo ha delle motivazioni di opposizione politica all’attuale governo. Diversa la posizione delle Chiese. Quelle di matrice evangelica hanno votato compatte per il no: “Semplicemente perché temono l’avvento di un potere politico di stampo chavista, legato al narcotraffico e sessualdipendente che possa introdurre l’ideologia gender” chiarisce La Bella nel corso di un incontro informale organizzato dall’associazione Media Trends. Ancor più diversificata la posizione della Chiesa cattolica, che ufficialmente non si è schierata, pur chiedendo di andare a votare. In realtà, a favore del sì c’è in pratica il solo arcivescovo di Cali, mentre il resto dell’episcopato colombiano si trova in forte difficoltà perché non vuole essere identificato con una delle due parti. Tuttavia la Conferenza episcopale, riunita d’urgenza nei giorni scorsi, ha incoraggiato “l’impegno a proseguire nel compito di riconciliazione e di costruzione di un’autentica pace”.

Narcotraffico e giustizia

Sono senza dubbio due problemi che hanno fatto pendere la bilancia dalla parte del no. Secondo l’accordo, i guerriglieri rinunciano ad ogni coinvolgimento nella produzione e nel traffico di cocaina. Ma “la questione che si pone – spiega ancora il prof. La Bella – è il controllo del territorio. Per noi è difficile comprenderlo ma in Colombia il rapporto tra centro e periferia è complesso. E’ vero, c’è un governo centrale ma sul territorio esistono capi locali poco inclini a cedere il loro potere”. Dunque, è ancora poco chiaro chi garantirà l’effettivo smantellamento delle piantagioni di coca, che tra l’altro dovrebbe essere alla base della miniriforma agraria prevista dall’accordo, altro aspetto che non piace alle famiglie dei latifondisti. L’altro nodo da sciogliere è quello della composizione dello speciale Tribunale di pace che dovrà giudicare i crimini commessi in 52 anni di guerra. L’accordo prevede che i giudici siano nominati dalla Corte suprema e dai massimi organismi giuridici del Paese. Una giustizia “transizionale” alla quale, come ricordava La Bella, si oppone in modo feroce l’ex presidente Uribe, che non vuole affatto sedersi in parlamento accanto ai suoi nemici giurati, che potranno presentarsi alle elezioni del 2018.

I risvolti psicologici

Alla complessità degli aspetti politici si aggiungono alcune difficoltà che la comunità internazionale probabilmente non ha colto in pieno. “La società colombiana – sostiene il prof. La Bella – è segnata da quella che potremmo definire psicologia dei profeti di sventura. Nel Paese non c’è una reale opposizione alla pace ma all’idea stessa che una pace sia possibile”. E’ il frutto avvelenato “di 52 anni di conflitto, che ha coinvolto quattro generazioni, toccato almeno il 40% della popolazione, causato 270.000 morti, 7-8 milioni di sfollati e generato grande sfiducia”. Dall’altra parte, nonostante la maggioranza di commenti positivi all’accordo sulla giustizia da parte dei familiari delle vittime, non si possono dimenticare facilmente i delitti commessi dai guerriglieri, di cui ora sembra in atto quasi un ingiustificato processo di beatificazione.

Il ruolo di S. Egidio

“Siamo entrati nella trattativa – afferma il prof. La Bella – in punta di piedi, dopo che l’impresa Ansaldo aveva chiesto il nostro aiuto per la liberazione di due dipendenti sequestrati dai guerriglieri. Va chiarito che la Comunità non ha avuto un ruolo di mediazione bensì di facilitazione. Siamo stati un po’ i “postini” in questa trattativa, cercando di recapitare i messaggi non ufficiali, riannodando i rapporti nei tanti momenti di tensione tra le due delegazioni”. Un impegno che si può riassumere in tre punti. Il primo è stato “favorire il dialogo tra le Farc e la S. Sede, con il coinvolgimento di mons. Castro” presidente della Conferenza episcopale. Il secondo è stato “riallacciare i rapporti con l’Unione Europea”, determinante per cancellare la qualifica di organizzazione terroristica che aveva portato a un isolamento internazionale delle Farc. Infine, una “sorta di talk show interno sulla contemporaneità: vivere per decenni nella giungla non favorisce il contatto con il mondo esterno”.

Il caso Eln

Se le Farc contano su un esercito decisamente più numeroso (si calcolano circa 10.000 guerriglieri oltre a cellule silenti di altri 3-4.000 uomini), non va dimenticato che guerriglia si compone di molti altri gruppi minori. Il principale dei quali è l’Esercito di liberazione nazionale, anch’esso di matrice marxista, che può contare su meno di 2.000 effettivi ma gode di ampio consenso in diverse zone del Paese. Le trattative di pace inizieranno il 27 ottobre a Quito, in Ecuador. Ma anche in questo caso non mancano le difficoltà. Pablo Beltran, capo della delegazione dell’Eln, ha già fatto sapere che i miliziani non accetteranno un “processo di pace clandestino” ma vogliono un ampio coinvolgimento popolare. Resta da vedere come il no all’accordo con le Farc (i cui rapporti con l’Eln peraltro sono pessimi) influirà su un processo di pace dalle caratteristiche completamente diverse.