Si dice che la Storia la scrivono i vincitori, ma gli autori di un nuovo capitolo sull’affannosa ricerca del governo stabile in Spagna non possono dirsi esattamente trionfanti. All’ultima tornata elettorale, quella del 10 novembre, la seconda del 2019, Il Partito socialista operaio spagnolo, Psoe, ha perso tre seggi pur riconfermandosi il primo partito del Paese. Mentre Unidas Podemos, guidata dalla forza di sinistra Podemos spesso accostata al Movimento 5 Stelle, ha visto una più pesante riduzione dei suoi rappresentanti. I suoi seggi al Congresso dei Deputati sono sette in meno rispetto a quelli ottenuti ad aprile. Sommando due debolezze, i 120 rappresentanti dei socialisti e i 35 della coalizione Up, non si ottiene infatti la maggioranza assoluta per governare. Questa infatti è 176, su 350 seggi. Impasse sbrogliata, almeno in teoria, dall'abbraccio ristoratore fra Sanchez e Pablo Iglesias, leader di Unidas Podemos. Quello che non era arrivato in questi mesi e che, al momento, rappresenta l'unico viatico alla risoluzione, perlomeno a medio termine, della crisi politica spagnola.
Chi scende e chi sale
Se all'origine del ritorno alle elezioni da parte di Pedro Sanchez, segretario del Psoe e capo di governo in carica, c'era l'idea di aumentare i consensi rispetto ai risultati dello scorso aprile – quando il primato del suo partito non fu sufficiente per avere una maggioranza assoluta monocolore – per poter governare senza dover scendere a patti con nessun'altra forza politica, allora il presidente ha avuto quella sbagliata. I socialisti hanno tenuto, ottenendo il 28% dei voti, ma i seggi sono scesi da 123 a 120. In generale tutta l'area di centrosinistra e sinistra, senza contare quella più radicale, ha perso qualcosa in termini di suffragi e quindi di rappresentanti – Unidas Podemos è scesa dai 42 di aprile ai 35 di oggi – mentre il centrodestra e la destra hanno ripreso vigore, in termini elettorali. Il Partito Popolare guidato da Pablo Casado ha risalito la china rispetto alla scorsa primavera, piazzandosi secondo con un distacco di sette punti percentuali dal Psoe e raggiungendo quota 88 seggi, cioè 22 in più della scorsa primavera. La vera rivelazione di queste politiche è stato Vox, partito dai connotati si può dire reazionari per la sua linea dura contro l'immigrazione, i diritti civili, il femminismo e che è stato accusato di essere in odor di nostalgia del franchismo, che ha più che raddoppiato il numero dei suoi deputati, saliti da 24 a 52. C'è poi il grande sconfitto di queste elezioni generali, Ciudadanos. Il partito centrista nato nel 2006 a Barcellona lo scorso aprile, sotto la guida di uno degli enfant prodige della politica spagnola, il presidente Albert Rivera, aveva conquistato 57 seggi. Che a metà novembre si riducono a 10, causando un terremoto nel movimento con Rivera che oltre a lasciare l'incarico ha abbandonato, per ora, l'agone politico. In proporzione al loro peso specifico, fanno incetta di rappresentanti al Congresso i partiti catalani indipendentisti, che se ne aggiudicano più di venti, tra Esquerra Republicana, di sinistra, Junts per Catalunya, la forza di centrodestra guidata da Carles Pudgeimont, e la new entry, Candidatura d'Unidat Popular, forza di sinistra radicale e separatista che si vede assegnare i suoi primi due seggi. Un messaggio forte e chiaro: della questione catalana si parlerà ancora a lungo. Se i toni si ammorbidiranno o meno, dipenderà da che tipo di alleanza nascerà da queste elezioni.
Un accordo di legislatura
Sanchez e il leader di Podemos Pablo Iglesias hanno firmato un accordo per la formazione di un governo di coalizione di sinistra. Le due principali forze progressiste spagnole si uniscono sia di fronte all’avanzamento della destra di Vox sia per cercare di dare un governo stabile in un paese che ha votato quattro volte dal 2016, le ultime due a distanza di pochi mesi, e da anni vede fronteggiarsi duramente – muro contro muro – Stato centrale e catalani, sia le istituzioni che la società civile. Sanchez resterà presidente, mentre Iglesias sarà vicepremier. Quest’ultimo ha dichiarato, in conferenza stampa: “Abbiamo raggiunto in preaccordo per un governo che combini l’esperienza del Psoe e il coraggio di Podemos”. Si mostra ovviamente fiducioso il presidente del governo: “E' un accordo per quattro anni, di legislatura. Sarà basato sulla coesione e la lealtà e aperto al resto delle forze politiche per costruire una maggioranza parlamentare.” Ha aggiunto poi Sanchez: “Questo nuovo governo sarà rotondamente progressista perché sarà formato da forze progressiste e lavorerà per il progresso della Spagna e di tutti gli spagnoli. Ciò che non rientrerà saranno l'odio e lo scontro”. Restano “solo” da trovare degli alleati, o quantomeno dei “non nemici” disposti all'astensione. Ma chi, tra il Partito popolare – che dopo le elezioni ha chiesto la “testa” di Sanchez –, le forze più di sinistra o addirittura i partiti indipendentisti?
“Nascerà, ma sarà debole”
Sull’esito dell’esecutivo spagnolo In Terris ne ha parlato in via esclusiva con Marco Bolognini, avvocato italiano socio fondatore dello studio legale d’affari spagnolo Maio Legal, con sedi a Madrid, Barcellona, Valencia, Siviglia, Vigo e Città del Messico. E’ inoltre opinionista-editorialista del principale quotidiano spagnolo d’informazione economica Expansion e cura il blog Spagna chiama Italia sul sito del giornale online Linkiesta. Bolognini, 44 anni, veneto cresciuto a Bologna, è arrivato in Spagna agli albori del Terzo millennio: “Allora ero un 'ragazzo di bottega'. Entrai come stagista nella sede spagnola della Banca commerciale italiana – oggi Banca Intesa –. Le mie radici sono sempre italiane ma la vita attuale è in Spagna. Era un paese già in crescita, mentre l’Italia era stagnante anche sotto il profilo della speranza”. Al governo c’era lo storico leader del Partito polare Josè Maria Aznar, che alle elezioni del 2000 – quelle del suo secondo mandato – ottenne la maggioranza assoluta. Uno scenario che sembra solo un lontano ricordo, nella Spagna di oggi.
Sono trascorsi poco più di dieci giorni dalle quarte elezioni generali dal 2016, con i socialisti in maggioranza relativa ma in calo. Come commenta i risultati?
“Sono state elezioni poco sorprendenti, si prevedeva quello che è successo. Si è parlato di Pedro Sanchez come del 'Cameron spagnolo', perché ha chiamato elezioni che già si sapeva come sarebbero andate. Un appuntamento elettorale doveva rendere evidenti i segni di stanchezza del suo elettorato e la crescita della destra conservatrice, anche per l’effetto Catalogna che sarebbe stato un fattore di spinta per i nazionalisti. Forse Sanchez si è voluto rifare una verginità politica con nuove elezioni per poter scendere a patti con Podemos, partito di sinistra più radicale. Non hanno però i seggi per governare insieme, si fermano a 155. A quel punto per dargli un'opportunità si potrebbero astenere i partiti regionalisti e altre forze come Mas Pais, ma non sarebbe un bello scenario”.
Pensa che un esecutivo ce la farà a nascere?
“Sì, anche se non so immaginare con quali alleanze. Ci vorranno alcuni mesi di trattative ma alla fine nascerà. Sarà un governo debole, ma non vedo lo spettro di nuove elezioni immediato. Forse tra un anno, un anno e mezzo”.
Dopo la precedente chiamata alle urne del 28 aprile scorso, i negoziati per la formazione del governo erano falliti. Come mai?
“All’inizio erano partite le trattative tra il Psoe e Ciudadanos, partito centrista. I primi avevano 123 rappresentanti e i secondi 57 quindi superavano ampiamente soglia 176, quella che serva per avere la maggioranza al Congresso dei deputati. Si poteva formare un ottimo governo di centro-centrosinistra per la stabilità del Paese, con una maggioranza ampia non bisognosa degli appoggi dei micropartiti, della sinistra più radicale e dei separatisti. Ma allora Rivera, leader di Cs e grande ammiratore del presidente francese Emmanuel Macron, decise di chiudersi in una torre d’avorio. Ha avuto un atteggiamento da piccolo politico invece che da grande statista e la Spagna ha buttato all’aria un’opportunità”.
Stavolta i socialisti hanno raggiunto un accordo preliminare in 48 ore, con Unidas Podemos. Pablo Iglesias ha definito questa intesa “una necessità storica”. Quali condizioni sono cambiate per arrivare a questo?
“Il preaccordo si basa su dieci punti molto generici. L’accordo è stato raggiunto, ufficialmente, a causa della crescita di Vox. Ma ritengo ci siano due chiavi di lettura. Una è che Sanchez abbia voluto lanciare un segnale di disponibilità al dialogo agli indipendentisti, per non averli contro. L’altra – più machiavellico – è che Sanchez voglia dimostrare velocemente al suo elettorato che un governo di coalizione Psoe-Podemos non è possibile, perché richiederebbe l’astensione anche dei separatisti. Per ottenerla dovrebbe virare il suo approccio verso l’indipendentismo, mentre nell’ultimo mese non ha nemmeno risposto al telefono al presidente della Generalitat de Catalunya Quim Torra. Dopo questa mossa, Sanchez potrebbe rivolgersi al Partito popolare, passando a loro la patata bollente di scegliere se fare parte dell’esecutivo o restarne fuori. Gli potrebbe bastare l’astensione dei popolari a un suo governo di minoranza”.
L’intesa Psoe-Podemos non troppo è dissimile forse, vista la storia delle forze in campo, dall’attuale governo Conte II… In Italia spesso ricorre il paragone tra Podemos e la creatura di Grillo e Casaleggio. Tra di loro ci sono più somiglianze o differenze?
“E’ un errore paragonarli. Pablo Iglesias e tutta la classe dirigente del suo partito sono cresciuti nel seno della cultura post-marxista, avendo come riferimenti Che Guevara e Cuba. Nel tempo poi hanno avuto un’evoluzione verso temi come l’ambientalismo e i diritti dei lavoratori. La differenza è che i leader e degli elettori del Movimento non sono mai stati ideologici o non lo sono più”.
L’exploit di Vox si spiega con il calo del centrodestra moderato, con la nostalgia del franchismo o c’è dell’altro?
“Credo che il franchismo non esista più. Se ci sono parti politiche che continuano ad accusare gli avversari di franchismo o fascismo non fanno che ridare energia a ideologie morte. Vox è stato votato per due ragioni: ha un leader che piace e il paese è stanco delle questioni territoriali. Per salire così in alto, Vox ha attinto anche al bacino di voti di Ciudadanos e del Partito popolare. Credo che la stragrande maggioranza degli elettori di Vox sia nato quando Franco non c’era più. Lo considero un partito di destra a tratti reazionario, estremamente tradizionalista, ma che si inquadra comunque nell’alveo costituzionale. La stessa cosa non posso dirla di alcune istanze indipendentiste che sono rappresentate in Parlamento. La loro posizione sulle armi è netta, una parte di loro è scettica sul cambiamento climatico ma credo che il lupo venga dipinto più cattivo di quanto non sia. Mi auguro comunque che non cresca, meglio avere un centrodestra liberale e moderno. Penso che Vox abbia raggiunto il suo massimo”.
Perché Santiago Abascal piace?
“E’ uomo volitivo e ha la caratteristica di guardare gli elettori negli occhi, una cosa che viene apprezzata. Ha un modo di fare semplice e chiaro, non alza facilmente la voce, ed è molto stimato dai suoi luogotenenti. Da giovane ha vissuto i suoi momenti duri, col padre sotto scorta per aver ricevuto le minacce dell’organizzazione basca indipendentista armata Eta. Ritengo sia più ragionevole di come venga dipinto”.
Per un partito che spicca il volo, ce n’è uno che scende in picchiata. Ciudadanos ha subito un crollo verticale, perdendo 47 seggi al Congreso de los Diputados, da 57 a 10. Il presidente Rivera ha rassegnato le dimissioni. E’ la fine di questo movimento centrista?
“Con i sistemi elettorali che ci sono e gli elettori dei nostri paesi mediterranei, credo che un centro liberale e laico sia destinato a una vita grama. Ritengo abbia tocca il tetto massimo nelle scorse elezioni, stavolta con 10 deputati invece saranno costretti a traccheggiare. Dovranno inoltre trovare un – o una –leader con almeno la metà del carisma di Rivera. In questa ore si fa il nome della portavoce di Cs Ines Arrimada. Lei ha percorso simile a quello di Rivera – è una catalana d’adozione e attiva 'in terra ostile' – ed è una persona di grande carattere. Ma finora ha vissuto all’ombra del grande leader, bisogna vedere come se la caverà da sola”.
Quanto ha influito la vicenda, sempre più incandescente, dell’indipendentismo catalano? In queste elezioni è entrato in Parlamento anche Candidatura di unità popolare, una forza politica di sinistra anticapitalista e decisamente indipendentista. Oltre ai “veterani” di Esquerra Republicana e Junts per Catalunya, rispettivamente di sinistra e di centrodestra.
“Ha pesato abbastanza. I 13 parlamentari di Er saranno fondamentali per la formazione o meno del governo. Basta che non votino contro perché l’esecutivo nasca, sono stati relativamente concilianti ma sono comunque un partito che ha flirtato molto con l’indipendentismo più radicale. Gli stati d’animo sono arrivati alle urne molto accesi, la tornata elettorale ha chiamato al voto gli indipendentisti più infervorati e la destra più nazionalista”.
Qual è stata la scintilla che ha acceso la “miccia” indipendentista nella maniera così forte a cui abbiamo assistito negli ultimi anni?
“Si è accesa con gli avvisi di garanzia a Jordi Pujol, ex presidente della Generalitat de Catalunya (e già leader del partito di centrodestra indipendentista Convergenza democratica della Catalogna, ndr), e sua alla famiglia. Avevano dato vita a un regime di corruttela esteso a tutta la pubblica amministrazione catalana e tutte le grandi famiglie catalane, perché la Catalogna aveva una grande autodeterminazione di gestione grazie al suo status autonomo. La cosa era ben nota anche a Madrid, ma c’era come un patto di non aggressione che ha tenuto fino alla vicenda giudiziaria. A quel punto è scoppiato il finimondo, voluto da alcuni politici interessati a riprendersi le redini della Catalogna puntando a raggiungere un nuovo accordo con lo Stato per una nuova gestione economica. Restando nella penisola iberica, si potrebbe pensare a qualcosa di simile al modello dei Paesi Baschi o della Navarra, che hanno una gestione diretta dei tributi – li riscuotono loro e si tengono il 100% delle imposte – e versano allo Stato spagnolo un contributo le spese generali, come la difesa o la politica estera. Naturalmente non escludo che ci siano dei cittadini spinti dal desiderio d’indipendenza, ma la miccia l’hanno accesa i politici”.
Nonostante l’evidente instabilità politica e la crisi tra Stato centrale e Catalogna, l’economia spagnola è in salute. Quali sono gli indici di crescita del Paese?
“Il Paese non ne sta risentendo, in questa fase. Gli ultimi aggiornamenti, secondo il Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva), davano intorno 1,9-2%, cifra positiva anche se inferiore al 2018. La Spagna in generale continuerà a crescere, probabilmente nel 2020 tra l’1,8% e il 2%”.
Come ha fatto la Spagna ha risollevarsi dopo la crisi del 2008?
“Il Paese non è certo un paradiso fiscale, ma per le dimensioni che ha una fiscalità ragionevole. Ogni Regione ha la sua autonomia impositiva e in alcune è ancora più vantaggiosa che in altre, ad esempio nella Comunità di Madrid, non ha un costo del lavoro elevatissimo e c’è flessibilità nel mercato del lavoro. Il costo della vita medio è leggermente inferiore ad altri paesi europei e c’è un alto livello di preparazione di giovani che escono dalle università e dai master alto. La Spagna inoltre offre buone infrastrutture, come il grande aeroporto di Madrid, ed è un hub dell’America Latina, molte attività hanno presenti lì il loro cuore in Spagna. Negli anni della crisi alcune aziende sono andato per de localizzare e adesso si assiste ad un ritorno sul Vecchio Continente”.
L'avvocato Marco Bolognini (Studio Maio)