Rohingya verso il rimpatrio

Bangladesh e Birmania hanno siglato un accordo che prevede il rimpatrio di centinaia di migliaia di Rohingya costretti a fuggire dall'offensiva dell'esercito birmano e da violenze che l'Onu e gli Stati Uniti hanno definito “pulizia etnica“. Passare dal dire al fare, tuttavia, potrebbe rivelarsi più difficile del previsto. I termini del memorandum d'intesa siglato nella capitale birmana Naypyidaw sono fumosi. Per il ministro degli Esteri di Dacca, Mahmooh Ali, si tratta di “un primo passo“.

L'intesa

Un alto ufficiale del ministero per l'Immigrazione birmano ha dichiarato che il Paese è pronto ad accogliere i Rohingya “il prima possibile“. L'intesa si basa su quella simile siglata nel 1992 dopo un esodo simile, con però un terzo dei numeri di oggi. Un gruppo di lavoro congiunto verrà istituito nelle prossime tre settimane per passare alla fase pratica. L'accordo, se implementato, renderà almeno in parte meno tragica l'emergenza umanitaria che da fine agosto è esplosa al confine tra i due Paesi.

Crisi umanitaria

Dalla parte bengalese sono spuntati campi profughi improvvisati dove le condizioni sono di mera sussistenza, per una popolazione che racconta dettagli di sofferenze atroci ad opera delle forze armate birmane con l'aiuto della popolazione buddista locale. L'intera fascia settentrionale dello stato di Rakhine è in sostanza stata ripulita di Rohingya, che prima erano la vasta maggioranza della popolazione in quell'area.

Criticità

Le complicazioni però non mancheranno. Lo scoglio principale è che i Rohingya che vorranno rientrare dovranno presentare dei documenti che provino il loro diritto di residenza: dato che la restrittiva legge sulla cittadinanza birmana del 1982 esclude tale minoranza da quelle riconosciute in Birmania, le autorità e la società birmana considerano i Rohingya “bengalesi” arrivati clandestinamente, senza il diritto di far parte del Paese. Molti di essi hanno anche perso tutti i loro averi, documenti compresi, nella precipitosa fuga dai roghi appiccati alle loro abitazioni dopo violenze – uccisioni anche di bambini, stupri di gruppo – che secondo l'inviata dell'Onu Pramila Patten potrebbero costituire crimini di guerra, crimini contro l'umanità e persino genocidio.

Rientro pericoloso

Anche per questo, le prime reazioni dai campi di rifugiati sono lontane dall'entusiasmo. Famiglie che hanno perso tutto, e in molti casi anche parte dei loro cari, non hanno più né case né terreni dove tornare ad abitare. E ovviamente vorrebbero garanzie di non essere di nuovo attaccati. I due governi sono arrivati all'intesa con scopi differenti. Quello birmano, guidato di fatto da una Aung San Suu Kyi che sulla questione ha perso gran parte dell'aura di paladina dei diritti umani di cui godeva, è stato aspramente condannato dalla comunità internazionale e vuole dare un segnale che possa allentare la pressione, mentre quello bengalese è preoccupato che i campi di rifugiati diventino permanenti. Resta però da vedere come l'accordo verrà accolto dall'esercito birmano, che mantiene un'influenza enorme e in sostanza opera indipendentemente. La settimana scorsa, ancora una volta definendo i Rohingya “bengalesi”, il capo delle forze armate Min Aung Hlaing ha messo in chiaro che in vista di una soluzione va enfatizzato “il desiderio della popolazione locale Rakhine (buddista), che sono veri cittadini birmani”.