Quel legame fra business del latte e migrazioni

Esiste un filo rosso (meglio sarebbe dire bianco) fra abolizione delle quote latte in Europa e una parte della migrazione economica dall'Africa. Un mercato fiorente quello dell'alimento più naturale del mondo, che ha portato diverse multinazionali europee ad adottare una politica commerciale aggressiva nel Continente dei poveri, con gravi conseguenze sui produttori locali, ridotti sul lastrico e costretti a cercare fortuna altrove.  

Le quote latte

Il fenomeno è stato oggetto di almeno due inchieste giornalistiche. Una di Politico.eu  e un'altra, più recente, del regista di Andreas Pichler, nel docufilm “The Milk System“. L'anno zero del business può essere considerato il 2015. Due gli eventi scatenanti: da una parte l'abolizione delle quote latte da parte dell'Ue, dall'altra l'embargo della Federazione russa nei confronti dei prodotti alimentari europei. L'impossibilità di piazzare tutta la sovrapproduzione portò i prezzi del latte ai minimi storici, rendendo necessaria l'individuazione di un mercato alternativo, nel quale vendere le eccedenze. 

Lotta impari

L'Africa divenne la destinazione più ovvia. I produttori locali non sono, infatti, in grado di soddisfare l'intera domanda. Un aiuto (chiamiamolo così) da fuori era dunque auspicabile, anche se in breve tempo la concorrenza fra piccoli pastori e multinazionali che ricorrono all'allevamento intensivo e sono in grado di offrire i loro prodotti a costi relativamente bassi ha cominciato a essere pericolosamente sbilanciata a favore delle seconde. Basti pensare che tra il 2011 e il 2016 l'export di latte in polvere dall'Ue verso l'Africa è passato da 12.900 a 36.700 tonnellate. I più interessati sono i Paesi africani occidentali, come Senegal, Costa D'Avorio, Ghana e Nigeria, i quali, a loro volta, trasportano i prodotti negli Stati vicini. 

Verso il fallimento

E mentre le multinazionali costruiscono sul territorio impianti per il trattamento del latte importato, i produttori locali annaspano. Perdono progressivamente i guadagni potenziali che permetterebbero loro di crescere, guadagnare, creare opportunità e posti di lavoro per le persone del posto. Il primo passo è la rinuncia all'attività, il secondo è la fuga verso nord, assieme agli altri migranti economici, in cerca di una porta verso quella stessa Europa che li ha affamati. Quando va bene. Perché la disperazione, spesso, spiana alla strada alla radicalizzazione e al terrorismo. Specie nel Sahel, una delle fucine africane della jihad. “I figli dei pastori diventano jihadisti – ha spiegato a Politico Adama Ibrahim Diallo, presidente dei produttori di latte e mini-processori del Burkina Faso – non per convinzione ma perché non ci sono posti di lavoro”. Chi vive vendendo latte, ha aggiunto, “sta lottando. Il problema è legato alla sovrapproduzione, la strategia delle companies è quella di stabilirsi in Africa per vendere i loro prodotti”. Sulla stessa linea d'onda Bacar Diaw, membro dell'associazione lattiero-casearia del Senegal Fenafils. “Quando grandi quantitativi di latte in polvere dall'Ue vengono esportate in Africa occidentale, sono i nostri produttori a pagarne il prezzo” ha detto, sempre a Politico

Colonie economiche

Ma per le imprese Ue, l'Africa è la classica gallina dalle uova d'oro, anche per il rapido sviluppo di alcune economie. Basti pensare che, secondo le ultime previsioni della Banca Mondiale, Ghana e Costa D'Avorio dovrebbero crescere, rispettivamente, dell'8,3% e del 7,2% nel giro di un anno. Diverse multinazionali – in particolare olandesi, danesi e francesi – sono presenti in quelle regioni da decenni ma hanno rafforzato gli investimenti subito prima dell'abolizione delle quote latte. Altre si sono insediate più di recente, realizzando impianti per il trattamento del latte in polvere e acquistando quote di aziende locali, che vantavano numerosi stabilimenti sul territorio, di cui sono diventate azioniste di maggioranza.

Prezzi

A precisa domanda, Theis Brøgger, portavoce della danese Arla, ha risposto che l'espansione in Africa non è trainata dai prezzi stracciati ma dalle scelte dei consumatori. Anche perché, ha proseguito, “la maggior parte del latte locale non è all'altezza degli standard”. E' pur vero, però, che, ad esempio, in Senegal il latte locale costa 1 dollaro al litro, mentre quello in polvere importato circa la metà. La Fao, da parte sua, ha invitato la Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale a investire in infrastrutture agricole ed esortato a proteggere i produttori leali dalla concorrenza sleale. Ad esempio rivendendo le tariffe sull'import di latte – attualmente al 5% – considerate “troppo deboli rispetto alle sovvenzioni ricevute dai produttori occidentali”. Le stesse multinazionali Ue sostengono di lavorare insieme a partner africani, con progetti e sovvenzioni. “Non è vero  – ha replicato Diallo – lo dicono solo per fare bella figura con l'Unione europea. Sono qui per fare affari, non per aiutare i nostri produttori”. 

La difesa europea

L'Ue, da parte sua, ha respinto l'accusa di penalizzare gli operatori economici dei Paesi poveri finanziando a pioggia le imprese europee che investono all'estero. Lo scorso febbraio il commissario Ue per l'Agricoltura, Phil Hogan, ha annunciato la creazione di una task force per l'Africa occidentale, con l'obiettivo di fornire consulenza ai governi sulla politica agricola e di incentivare le aziende Ue a investire in modo responsabile. Hogan ha ricordato a Diallo che il Burkina Faso potrebbe ricorrere a dazi più svantaggiosi per rallentare l'import di latte. “Lo invito a farlo presente al suo governo – ha incalzato – capisco però che un Paese possa mantenere tariffe basse per motivi di sicurezza alimentare, è una loro decisione sovrana”. Parole che, tuttavia, non convincono quanti – compreso l'ex segretario generale Onu Kofie Annan, scomparso lo scorso agosto – continuano a criticare l'ambiguo di Bruxelles, che da una parte sostiene di voler promuovere lo sviluppo in Africa – anche per limitare i flussi migratori nel lungo periodo e combattere il terrorismo – e dall'altro finisce con lo schiacciare le economie locali dei Paesi poveri.