Obama chiede al Congresso poteri di guerra contro l’Isis

Il presidente americano Barack Obama ha inviato al Congresso l’Authorization for Use of Military Force (Aufm), una proposta per chiedere l’autorizzazione all’uso della forza militare contro lo Stato Islamico. L’Isis, nelle parole del presidente, rappresenta “una grave minaccia” per gli Usa e il mondo. Nella bozza viene riportato il limite temporale massimo di 3 anni senza “un’offensiva duratura” con i corpi armati di terra. Non verrebbe esclusa quindi la possibilità di un intervento per periodi limitati. Finora l’autorizzazione all’uso della forza era stato circoscritto ai raid aerei spesso eseguiti da droni.

Il testo dell’Aumf è volutamente ambiguo – non escludendo a priori la possibilità di interventi delle truppe di terra per periodi limitati – perché l’amministrazione Obama spera così di riuscire ad ottenere il sostegno sia dei democratici – sfavorevoli all’idea di un nuovo intervento in grande scala – che dei repubblicani che, al contrario, non vogliono escludere completamente il ricorso alle forze di terra se queste dovessero rivelarsi necessarie per sconfiggere l’Isis.

È dal 2002 che il Congresso – che ha la prerogativa di dichiarare guerra, i cosiddetti “war powers” – non veniva interpellato per autorizzare formalmente un’operazione militare. 13 anni fa si trattò di dare l’assenso alla richiesta di George Bush di attaccare l’Iraq. L’Aufm segue di pochi giorni la notizia dell’uccisione di Kayla Mueller, attivista internazionale statunitense per i diritti umani di 27 anni rapita dai miliziani dell’Isis il 3 agosto del 2013 di rientro dall’ospedale di Aleppo dove si era recata a lavorare per un giorno con un collega di Medici Senza Frontiere.

Nel presentare le condoglianze alla famiglia Mueller, Obama si era detto “con il cuore spezzato” per l’atrocità del delitto. Al contempo, a quanti lo accusavano di non fare abbastanza per i prigionieri, il presidente Usa aveva ribadito che la linea sugli ostaggi americani in mano ai terroristi, Stato Islamico in testa, restava quella della massima fermezza: “Gli Stati Uniti non pagano i riscatti” aveva assicurato.