Lezioni di pace

Ricostruire la via della conciliazione religiosa attraverso il dialogo fra popoli è probabilmente l'unica vera arma per combattere il terrorismo. Una “linea-guida” più volte invocata ma che, in un mondo che continua a combattersi, è necessario ribadire. C'è bisogno di ascoltare un messaggio di pace, che insegni come la via del confronto e del rispetto possa rivelarsi l'antidoto vincente alla minaccia del fanatismo. Un insegnamento da veicolare in particolar modo fra i giovani, i più soggetti al condizionamento mediatico. Dal confronto con i suoi allievi sulla vera natura dell'Islam, il professor Hafez Haidar, diplomatico e insegnante libanese, ha ricavato un libro, “Lezioni di pace”: lui i ponti li ha sempre costruiti, nel corso di una vita vissuta in prima linea per diffondere un pensiero di speranza e dialogo fra popoli. Anche per questo, nel 2017, ha ricevuto la candidatura al Premio Nobel per la Pace: il suo impegno di mediazione ha saputo portare quei frutti che, attraverso un confronto semplice ma profondo, ha voluto condividere con i suoi studenti, ai quali spiegare quanto e perché l'Islam autentico, sia diverso da quello paventato dietro le bandiere nere del Califfato.

Professore, com'è nata l'idea di affrontare un tema così delicato con degli studenti?
“Parte dagli attenati dell'11 settembre 2001. In quell'occasione scrissi una delle mie poesie contro il terrorismo e capii che stava nascendo un conflitto tra i popoli a livello culturale ma anche religioso, frutto di ignoranza e di interessi commerciali e politici. L'esperienza è iniziata da lì, da quell'annata durante la quale ero impegnato moltissimo nella promozione della lettaratura e dell'arte. Allora ho capito che bisogna prendere un altro indirizzo, quello dei giusti. Sentivo il bisogno di dover andare avanti e diffondere la legge dell'amore fra la gente. Mi sono detto che l'unico mezzo per abbattere il terrorismo e altre piaghe sociali è quello di abbracciare la cultura pura, che racchiuda tutte le meraviglie del Creato: l'amore ma anche progresso, comunicazione, insegnamento. Una cultura aperta a tutte le Nazioni”.

Un impegno difficile…
“Non ho mai messo barriere tra me e un'altra religione, ho sempre cercato di essere parte di ognuna. Quello che chiamiamo diverso è una fantasia che creiamo noi stessi: tutti siamo umani e viviamo sulla stessa Terra. Forse è un ragionamento filosofico, però è veritiero. Io ho visto molte ingiustizie nel mondo: dal conflitto arabo-israeliano ho vissuto la tragedia del terrorismo in Libano. Nel 1975 ho combattuto nell'esercito: a Tripoli (città a nord di Beirut, da non confondere con la capitale libica, ndr) affrontammo 3 mila terroristi in una battaglia durata 18 giorni. Io servii nella Croce Rossa, senza mai uccidere nessuno. Partecipai ad alcune operazioni, catturando i terroristi in maniera pacifica, questo sì. Ho vissuto in un mondo, l'Oriente, travagliato e dilaniato da queste guerre. Non volendo far parte di nessuna fazione lasciai l'esercito: da lì la mia vita è stata una missione di pace, ho lavorato per diffondere la cultura dell'amore, della tolleranza e del perdono fra i popoli”.

In che modo?
“Capire e comunicare con la gente sono ingredienti importanti per creare un mondo migliore, nel quale lasciare spazio ai giovani. Io non ho accettato di vivere in un contesto di ingiustizia: la mia ribellione pacifica, infatti, nasce dalle sofferenze e dalle tragedie altrui. Lavoro come ambasciatore per diverse associazioni e ho istituito un premio di giornalismo all'Unesco di Beirut premiando, il primo settembre scorso, i migliori reporter del Medio Oriente alla presenza di tutto il corpo diplomatico. In quell'occasione ho fatto suonare l'inno italiano insieme a quello libanese. Ho portato in Oriente la cultura italiana, che ormai mi appartiene, per far capire che si può creare un ponte culturale e cominciare a seminare qualcosa”.

Pensa che il suo lavoro umanitario sia riuscito, almeno in parte, a portare i frutti sperati?
“Posso dire che, tentando di creare questo dialogo continuo, ho avuto modo di parlare sulle principali reti televisive libanesi e arabe. Lo schermo è stata un'occasione importante per spiegare come le religioni siano nate per unire, che la cultura dev'essere universale e come sia necessario aprirsi a un interscambio prolifico con l'Occidente. Occorrerebbe fare un passo indietro, nel passato positivo. Questa è stata la mia proposta, e alla fine credo sia stata apprezzata: sono stato intervistato da Al Jazeera, Al Arabiya, vuol dire che qualcosa ha funzionato. La gente ha bisogno di qualcuno che parli di questi argomenti… Tacendo non facciamo altro che il gioco dei terroristi: loro vogliono distruggere la cultura, la solidarietà e la collaborazione fra popoli… Tornare indietro”.

In che senso?
“In base alle loro idee wahabite, basate sul concetto ultraconservatore che vede come nemico non solo l'Occidente ma anche i musulmani moderati, considerati suoi strumenti e non predicatori di un Islam libero. I terroristi ripudiano ogni cambiamento, togliendo libertà e istruzione, basandosi su un'interpretazione sbagliata del Corano: usano alcuni versetti per fomentare l'odio dei loro seguaci, promettendo loro il paradiso e probabilmente somminstrandogli alcune droghe. Lavorano molto sulla manipolazione psicologica e l'Occidente ha commesso un errore gravissimo”.

Quale?
“Innanzitutto bisogna capire da dove vengono le armi che finiscono nelle loro mani e chi le fornisce. Ma l'errore a cui mi riferivo risale alla colonizzazione: le potenze applicarono politiche sbagliate, guardando all'Oriente come una risorsa per arricchirsi. Sicuramente hanno lasciato ottime strutture d'istruzione, tracce importanti… Ma hanno creato un ponte culturale per le famiglie ricche, dimenticando i poveri e la classe media. Il terrorismo si basa su questi errori. E la battaglia non appartiene solo all'Occidente ma anche agli orientali. Cominciamo a chiudere le fabbriche di armamenti che li riforniscono e ad attuare, come Ue, una politica corretta e comune anche nei confronti dei migranti. A questo punto arriveremo a una collaborazione che possa davvero contrastare il terrorismo”.

Esiste uno scenario politico tale da permettere la creazione di questa rete?
“Dipende dagli interessi economici e politici. Finché ogni nazione penserà a se stessa, le speranze di cambiamento resteranno poche. Se si fanno delle norme vanno adottate da tutte le nazioni, altrimenti continueremo ad assorbire il terrorismo. Bisogna boicottare l'economia degli Stati che forniscono armi e denaro illecito: nel mio libro ho invitato gli intellettuali a creare un piano culturale che privilegi l'istruzione delle donne e dei giovani sia dal punto di vista professionale che tradizionale, combattendo l'analfabetismo anche attraverso l'insegnamento delle lingue straniere. Come dice un proverbio arabo, 'Chi conosce una lingua possiede un popolo'”.

E' così che si costruisce il dialogo?
“Bisogna adottare nuove politiche di sviluppo economico, migliorare i rapporti commerciali e culturali fra Oriente e Occidente; combattere la disoccupazione, rinnovare l'istruzione, la sanità, i trasporti. Ma, soprattutto, confrontarsi con l'Islam moderato: il mondo arabo è composto da 22 Stati, membri permanenti della Lega araba e dell'Onu: bisogna conoscerli, capire la loro politica, dialogare con loro. Va precisato che l'Islam non racchiude solo i Paesi arabi ma anche altri in molte parti del mondo: credo che sia necessario parlare con entrambi i gruppi”.

L'interesse dei terroristi è quindi riconducibile esclusivamente al lato economico?
“Dopo la Guerra del Golfo, in molti si sono distaccati dall'esercito iracheno portando armi ai nuclei jiahdisti: ecco perché sono diventati forti. Hanno esteso il loro dominio dall'Iraq alla Siria ma il loro sogno era di conquistare tutte quelle zone del Medio Oriente per arrivare in Occidente. Si dice che gli stranieri reclutati dalla terza generazione siano 30 mila… Vuol dire che c'è qualcosa che non va anche nella nostra politica. Il web ha certamente giocato sporco, perché è stato utilizzato come strumento per arrivare a questi ragazzi. La maggior parte di loro non sa neanche cosa siano l'Islam o l'Oriente eppure, tramite lavaggio del cervello, diventano accaniti guerrieri. Ma in nome di quale Corano e di quale Dio? Questo è un gruppo di criminali, assassini spietati, il morbo dell'umanità. L'arma letale di coloro che seminano odio e violenza nel cuore dei deboli”.

Qual è la situazione dei Paesi arabi? Fra loro esiste una maturità che garantisca un dialogo 'interno'?
“Tanti hanno paura di schierarsi contro questa gente perché purtroppo sono infiltrati dappertutto e c'è chi li appoggia politicamente. Questi fanatici, peraltro, cercano di dividere l'Islam autentico. E purtroppo sono aiutati da alcuni Paesi arabi e da alcune famiglie saudite, arriva a loro denaro sporco. Bisogna incitare i musulmani a prendere posizioni decise nei confronti dei terroristi, non basta dire di essere contro: devono fare un convegno e cominciare a cambiare la loro politica, a collaborare con l'Europa, l'America e anche con la Russia. Adoperarsi per punire ogni individuo che offra qualsiasi tipo di protezione a un terrorista e dichiarare pubblicamente, a livello nazionale e mondiale, di disconoscere ogni forma di fanatismo. Aiutare i figli degli immigrati a integrarsi nelle società e ad assimilare la cultura del Paese ospitante mediante una politica di accoglienza non discriminatoria. Controllare costantemente i siti web e i social network per individuare i figli degli immigrati stabilitisi in Europa e oltreoceano possibili preda del terrorismo. Indire convegni permanenti tra i rappresentanti delle tre religioni monoteiste e affidare a uomini di fede il compito di insegnare correttamente i principi religiosi senza fini politici ed economici”.

Tornando al suo libro, quale è stata la reazione dei suoi allievi a lezioni così particolari?
“Si è trattato innanzitutto di un confronto quasi familiare. Da insegnante devo prima di tutto capire quali sono le idee dei miei studenti e spiegar loro le cose in maniera piacevole. E' stato un colloquio molto bello: fondamentalmente non sapevano chi fosse Maometto, così ho narrato la sua storia e ascoltato le loro domande, ho spiegato chi sono i califfi e come è nato il concetto odierno di califfato, narrando la storia della dinastia degli omayyadi. Al Baghdadi, per esempio, ha preso il nome da Baghdad, città gloriosa ai tempi degli abbasidi, e anche la bandiera nera deriva da quel periodo: quindi Daesh vorrebbe tornare all'epoca florida che ha regalato al mondo arabo grandi conquiste. La differenza è che, all'epoca, i califfi non hanno ordinato ai loro seguaci di uccidere i cristiani. Loro hanno tradito anche il concetto storico, dimostrando la loro ignoranza culturale e religiosa. Come fanno a parlare in nome di una religione?”.

Ritiene che questo sia il momento giusto per creare una sincronia fra Occidente e Islam moderato, considerando il progressivo arretramento del Califfato in Medio Oriente? Penso alle recenti cadute di Raqqa e Mosul…
“Su questo bisogna fare attenzione: il terrorismo è un morbo e la caduta delle sue roccaforti non deve far pensare di averli sconfitti. Io temo soprattutto i loro seguaci che si trovano in Occidente: bisogna fare una politica di sicurezza internazionale in tutte le zone critiche per garantire l'incolumità delle persone e salvaguardare gli interessi anche economici dei Paesi. I sunniti e gli sciiti devono fare un incontro pubblico per mettere fine alle loro dispute e ripulire l'Islam dal fanatismo. Per quanto riguarda l'Onu, bisogna potenziare il suo ruolo, dargli più potere politico per combattere qualsiasi forma di terrorismo. Sono cose molto difficili ma possono essere raggiunte attraverso il dialogo, soprattutto fra le tre grandi religioni monoteiste. Parlare dei propri problemi per risolvere quelli dei tutti: se la passione è il linguaggio dei potenti, il perdono è il libro dei giusti”.