La lunga strada verso la pace in Siria

All'inizio era il califfato. Poi, quando nel marzo scorso, le Forze democratiche siriane, la coalizione di gruppi armati ribelli a maggioranza curda, hanno smantellato Baghouz, l'ultimo presidio del sedicente Stato islamico, gli scontri per liberare le città dai miliziani del califfato sono stati eclissati dal contraccolpo del lungo conflitto civile siriano. L'impressione è quella di una guerra che sembra non avere fine. Il conflitto in Siria è un'agonia lunga otto anni, che vede le forze governative, fedeli al presidente Bashar al Assad, contrapporsi alle milizie curde classificate come “ribelli” tanto quanto i jihadisti di Hayat Tahrir al Sham, un tempo conosciuto come “Fronte di al Nusra”, costola locale di Al-Qaeda. Piccole realtà anti-governative che costellano, come tante macchie di leopardo, le alture settentrionali del Paese. In tutti questi anni di conflitto, la Siria ha ottenuto il triste primato di seconda peggiore catastrofe umanitaria dopo la Seconda Guerra Mondiale e, secondo le stime dell'Onu, oltre 12 milioni di siriani sarebbero attualmente bisognosi di un aiuto umanitario. La stima non è definitiva e, con l'escalation del conflitto in corso, in futuro rischia di essere riveduta. 

Idlib, la provincia martoriata

La guerra civile ha ridisegnato la mappa del Paese. Contro le sacche di resistenza dei miliziani, Damasco ha mostrato il pugno di ferro sin dalle prime fasi del conflitto. Accusati di destabilizzare politicamente la Siria, i ribelli si sono concentrati nella Siria settentrionale. Da otto anni, nell'area trovano rifugio i profughi siriani, coloro che temono lo stringente potere di al-Assad e persino chi è stato cacciato dai suoi territori, al punto che in otto anni la popolazione in loco è raddoppiata. Sono tre le provincie che, negli ultimi anni, sono diventati aspri teatri di scontri, ma l'area in cui s'è acuita l'emergenza umanitaria è la provincia di Idlib: questa enclave nord-occidentale è, di fatto, una zona fuori dal controllo del governo di Damasco, per cui i militari turchi affiancati dalle milizie anti-regime  islamiste hanno ampia libertà d'azione. Per questo motivo, Idlib è considerata, a tutti gli effetti, l'ultimo presidio dei ribelli siriani. Si comprende bene come il suo destino sia in cima alla lista nell'agenda di al-Assad e annichilire il controllo dei ribelli nella regione equivarrebbe a – come sottolinea il quotidiano The New York Times – “consolidare quella che sembra essere sempre più una vittoria garantita in otto anni di guerra civile”. Eppure, la provincia di Idlib è anche una coperta troppo corta per al-Assad, perché la contesa tra i due fronti belligeranti è tale da creare uno squilibrio di forze che ha richiesto la partecipazione di altri Paesi, incidendo su tutto lo scacchiere geopolitico medio-orientale. Se le forze di terra dei ribelli sono, infatti, state affiancate da Ankara, a sostenere il fuoco di artiglieria di Damasco è stata Mosca. A poco sono valse le ripetute tregue negoziate fra Turchia e Russia volte a bloccare qualsiasi iniziativa militare imponente: i raid aerei e gli attacchi susseguenti hanno inasprito lo scenario a livelli inaccettabili, perché è proprio su quelle città ritenute strategici punti nevralgici della rete di infrastrutture, che continuano ad accanirsi i velivoli dell'aviazione siriana. Proprio ieri, secondo quanto riferisce l'emittente televisiva emiratina Al Arabiya, sarebbero morti 40 civili, tra cui donne e bambini, colpiti da due bombe sganciate in un raid governativo su un mercato ortofrutticolo, come denunciato nei tweet diffusi dall'organizzazione umanitaria degli Elemetti Bianchi citati dall'agenzia di stampa turca Anadolu. Secondo Agenzia Nova, inoltre, dodici persone, fra cui cinque bambini, avrebbero perso la vita a causa di un altro bombardamento sulle case di Urum al Jawz e Kfarouma.

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Bambini sempre più vulnerabili

Il sempre più crescente coinvolgimento di civili nel conflitto siriano ha spinto Papa Francesco, da sempre attento al fragile scenario medio-orientale, ad indirizzare una lettera al presidente al-Assad. Nella missiva, consegnata ieri al premier siriano dal Prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, il Pontefice esprime profonda preoccupazione per la situazione di emergenza umanitaria in Siria e, in particolare, proprio nel governatorato  di Idlib, dove attualmente vivono tre milioni di civili che versano nell'emergenza più assoluta. Come ha sottolineato ieri il Segretario di Statocardinale Pietro Parolin, in un'intervista a Vatican News, “Il Papa segue con apprensione e con grande dolore la sorte drammatica delle popolazioni civili, soprattutto dei bambini che sono coinvolti nei sanguinosi combattimenti”. Il Pontefice ha da sempre a cuore la sorte dei bambini, perché vittime innocenti di conflitti volti soltanto alla distruzione dell'altro, spesso il proprio vicino. Lo aveva già fatto nell'udienza generale del 5 aprile 2017, appellandosi alla coscienza di coloro che hanno responsabilità politica dinanzi all'”inaccettabile strage” dei bambini, com'egli stesso la definì. Per Papa Bergoglio, il giudizio di Dio si riversa sulle azioni violente, che assumono un peso maggiore se perpretrate a danno dei bambini. Poco tempo prima dell'accorato appello, il 1°  giugno 2016, in occasione della Giornata Internazionale del Bambino, il Santo Padre aveva invitato alla preghiera per i bambini siriani siriani, perché resti in loro la speranza e la promessa di riconciliazione. Ciononostante, messi da parte gli accorati appelli alla riconciliazione – di cui l'ultima lettera è un ennesimo ed estremo tentativo di far dialogare le parti – soltanto negli ultimi mesi si è raggiunto il numero di 600 vittime e il bilancio dei bambini che hanno perso la vita a causa degli scontri rasenta cifre drammatiche: secondo il rapporto, lungo 23 pagine, stilato dalla Rete siriana per i diritti umani, dal 26 aprile al 12 luglio dell'anno corrente sono morti un totale di 157 minori. Davanti a questo bilancio, Mark Lowcock, responsabile dell’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, ha dichiarato in un tweet: “Questa carneficina deve finire”. 

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Cittadini in fuga

L'effetto dei bombardamenti si riversa anche in altre aree del Paese. Nei mesi scorsi, circa 150.000 persone sono fuggite e questo ha allargato l'emergenza a un livello non solo umanitario, ma anche economico e sociale. Commentando la lettera del Pontefice, il cardinale Mario Zenarinunzio apostolico in Siria, ha dichiarato al Sir: “Le bombe non cadono più a Damasco, Homs e in altre parti però c’è la bomba della povertà. Secondo l'Onu, questa colpisce l’80% della popolazione siriana, costretta a vivere sotto la soglia di povertà”. Lo scenario più lampante si ravvisa nei campi profughi, come Al-Hol, in cui attualmente sono stanziate circa 70.000 persone. Stando a quanto rileva l'Unicef, oltre il 90% dei profughi è composto da donne e bambini, i veri “dimenticati” di questo conflitto, come sottolinea il Fondo delle Nazioni Unite. La situazione emergenziale in cui versano i campi profughi, con donne costrette a partorire in tenda e minori esposti ad atti di violenza, trasforma questi luoghi d'accoglienza in aree di emergenza umanitaria. I bambini al campo di Al-Hol richiedono cure, protezione e assistenza salvavita, soprattutto con l'arrivo delle alte temperature estive: “Migliaia di ragazzi e ragazze al campo di Al-Hol non hanno mai avuto la possibilità di essere soltanto dei bambini. Questi sono bambini. Meritano di ricevere cure, protezione, attenzione e servizi a i massimi livelli. Dopo anni di violenze, non sono desiderati, sono stigmatizzati dalle loro comunità locali o evitati dai loro Governi” ha dichiarato la scorsa settimana Fran Equiza, Rappresentante dell'Unicef in Siria. Come ricorda il cardinale Parolin, “Il Papa continua a pregare perché la Siria possa ritrovare un clima di fraternità dopo questi lunghi anni di guerra, e che la riconciliazione prevalga sulla divisione e sull’odio. Nella sua lettera, il Santo Padre usa per ben tre volte la parola riconciliazione: questo è il suo obiettivo, per il bene di quel Paese e della sua popolazione inerme. Il Papa incoraggia il Presidente Bashar al-Assad a compiere gesti significativi in questo quanto mai urgente processo di riconciliazione e fa degli esempi concreti: cita ad esempio le condizioni per un rientro in sicurezza degli esuli e degli sfollati interni e per tutti coloro che vogliono far ritorno nel Paese dopo essere stati costretti ad abbandonarlo”.

Detenuti “sotto standard”

La missiva del Papa tocca anche la questione dei detenuti politici. Come ha denunciato un mese fa l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, circa 55.000 combattenti stranieri provenienti da quasi 50 diversi Paesi del mondo ed oltre 11.000 loro familiari sono detenuti nel campo profughi di Al-Hol e versano “in condizioni profondamente sotto standard”, aggiungendo che gli Stati “devono assumersi la responsabilità dei loro cittadini”. Una questione spinosa riguarda, inoltre, i bambini figli dei miliziani, a cui spesso viene inflitta l'apolidia come stigma per essere consanguinei di miliziani del califfato. Una sofferenza in più per i questa categoria vulnerabile, come ampiamente documentato in un reportage del The New York Times. Il sopraccitato campo profughi di Al-Hol ospita 12.000 tra donne bambini: come denuncia il quotidiano statunitense, molti bambini, percependosi esclusi e in una realtà “ai margini” finiscono per radicalizzarsi seguendo l'insegnamento dei loro padri: “La mentalità è la stessa, nulla è cambiato. I bambini sono innocenti, ma quando finiscono nel campo, imparano dai loro genitori” ha dichiarato al The New York Times Mr. Bashir, l'amministratore del campo profughi di Al-Hol. Un problema che, come sostiene Mons. Khaled B. AkashehCapoufficio per l'Islam e Responsabile del Dialogo Interreligioso, va affrontato partendo dall'educazione. Intervistato da In Terris, mons. Akasheh ha dichiarato: “Bisogna prestare attenzione all'educazione che riceveranno perché, se questa è errata, saranno vittime di quella formazione e 'pagheranno' per una situazione per la quale non hanno alcuna responsabilità”. Spesso i campi profughi diventano anche luoghi di detenzione. Come ricorda il cardinale Parolin, “Nel marzo 2018 l’Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic ha pubblicato una relazione sulle decine di migliaia di persone detenute arbitrariamente. A volte in carceri non ufficiali e in luoghi sconosciuti, essi subirebbero diverse forme di tortura senza avere alcuna assistenza legale né contatto con le loro famiglie. La relazione rileva che molti di essi purtroppo muoiono in carcere, mentre altri vengono sommariamente giustiziati”. Nella missiva, Papa Francesco chiede un equo trattamento per i prigionieri i quali, a causa del marasma conseguente al conflitto, rischiano di essere vittime di reiterata violenza. Nel pensiero bergogliano, perseguire la giustizia sociale significa porre le basi per una società più equa. Un concetto ribadito in più occasioni, come nel recente Discorso al vertice dei giudici panamericani sui diritti sociali e la dottrina francescana del 4 giugno scorso. All'alba del suo pontificato, Francesco aveva già messo in guardia dai pericoli insiti nel “populismo penale, di tortura, di diritti umani, di dignità, di corruzione”. Presagendo uno scenario indefinito, il Santo Padre auspica che in Siria non accadano tali episodi, più frutto di una società che costruisce nemici stereotipati piuttosto che esempi di giustizia penale. Suggellando l'appello di Papa Francesco, padre Firas Lutfi, parroco ad Aleppo, ha dichiarato a Vatican News: “Se la pace non si realizza quanto prima possibile, certamente rimane un'emorragia, una ferita aperta che richiede una guarigione”.