Irlanda: la lotta armata è davvero finita?

Era il 10 aprile 1998, quando il primo ministro britannico Tony Blair e il suo omologo irlandese Bertie Ahern firmarono quello che è passato alla storia come l’Accordo del Venerdì Santo. In una data densa di significato per i cattolici, fu compiuto un passo importante con l’obiettivo di mettere fine a quasi trent’anni di scontri in Irlanda del Nord, iniziati con i cosiddetti troubles di fine anni ’60 che fecero oltre 3.500 vittime.

La firma non spense però del tutto il fuoco del conflitto tra la comunità protestante (favorevole all’unione con la Gran Bretagna) e quella cattolica repubblicana (che vorrebbe una riunificazione di tutta l’Irlanda). Come ricorda la Bbc, negli ultimi due decenni si sono contate circa 150 vittime di violenze mai sopite. La radice della rivolta continua ad allignare non nel romantico verde delle campagne d’Irlanda, ma nel grigio dei quartieri popolari di città come Belfast e Derry. Qui i cosiddetti “muri della pace”, sebbene sia stato annunciato il loro smantellamento, continuano, a dispetto del nome, a dividere le due comunità e a foraggiare il settarismo.

L’anomalia dell’Irlanda è testimoniata poi dalla presenza di partiti come il Republican Sinn Fein (Rsf), che adottano la politica dell’astensionismo, ossia il rifiuto di farsi eleggere nei Parlamenti sia della Repubblica d’Irlanda sia del Nord Irlanda, considerandoli strumenti di comando britannici. Il partito nel 1986 si staccò dal più famoso Sinn Fein proprio per la decisione di quest’ultimo di abbandonare l’astensione perseguita fin lì dal lontano 1905. E proprio un membro di spicco del Rsf, il tesoriere Diarmuid Mac Dubhghlais (nome rigorosamente gaelico), racconta ad In Terris come a vent'anni da quell'Accordo la questione nord-irlandese sia lungi dal normalizzarsi.

Come è cambiata l’Irlanda in questi vent’anni?
“È cambiata molto. Nei primi dieci anni dopo il 1998 c’è stata un’enorme crescita economica nello Stato delle Ventisee contee (Repubblica d'Irlanda, ndr), ma gran parte della ricchezza è andata a giovamento di chi apparteneva alle alte sfere della società irlandese. I ceti popolari non ne hanno beneficiato. Nei successivi dieci anni, l’Irlanda è stata duramente colpita dalla recessione economica internazionale. E queste perdite, invece, hanno riguardato tutta la società. Come ha detto un mio compagno di lotta, ‘prima ci hanno promesso i profitti, ma poi hanno socializzato le perdite’”.

Si è dato avvio ad una normalizzazione della vita sociale e politica?
“Non parlerei di normalizzazione. Da un punto di vista politico, è cresciuto il consenso nei confronti del Provisional Sinn Fein (il nome con cui chiama il Sinn Fein, ndr) ed è diminuito gradualmente quello ai due partiti principali di un tempo: Fianna Fail e Fine Gael. Dal punto di vista sociale, ci sono meno manifestazioni visive del conflitto: bombe, sparatorie, etc. Ma sottotraccia la situazione è ancora molto tesa, con la polizia che ancora ferma, indaga e fa pressione ai repubblicani: l’internamento è ancora utilizzato, anche se su scala minore. Il settarismo sta aumentando nel senso che i ‘muri della pace’ sono ora più alti e più lunghi di venti anni fa, questo di per sé dimostra che, nonostante la relativa pace, questa terra resta anomala”.

Non crede che l’Accordo del Venerdì Santo sia almeno servito a fermare la scia di sangue in Irlanda?
“La risposta più ovvia sarebbe sì. Ma sarebbe troppo semplicistica. Già in passato l’Irlanda occupata ha conosciuto brevi periodi di processi di pace, che hanno avuto come effetto meno morti sulle strade. Ma come dice il proverbio, ‘se non impari dalla storia, sei destinato a ripeterla’: tutti i processi di pace hanno fallito, prima o poi il conflitto si è sempre riacceso. Ora la situazione non è confortante: nello Stato delle Sei contee (Nord Irlanda, ndr) manca un Esecutivo dal gennaio 2017 e si è tornati al direct rule, cioè al governo diretto di Londra, come è avvenuto ininterrottamente dall’inizio dei Troubles negli anni ’60 all’Accordo di Pace del 1998”.

Crede che la lotta armata possa ancora unire l’Irlanda? Cosa ne pensa di chi continua a percorrere questa strada?
“Purtroppo la Gran Bretagna non ha mai abbandonato le terre in cui non c’è stata una rivolta armata nei suoi confronti. Anche la limitata autonomia dello Stato Libero d’Irlanda (nel 1922, ndr) è stata ottenuta solo a seguito di un conflitto. Nessuno ha mai desiderato vedere armi e violenze nelle strade: si è trattato di un rimedio contro l’interferenza britannica, per lasciare il governo dell’Irlanda al suo popolo. Chi abbraccia la lotta armata oggi è in minoranza, ma è stato così anche nel passato. Chi porta avanti questa opzione continua a credere in un’Irlanda unita, libera dal settarismo e dalla cattiva amministrazione della Gran Bretagna. I recenti avvenimenti in Catalogna insegnano che l’imperialismo osteggia il ‘cambiamento democratico’ e chiude gli occhi davanti alle violenze delle forze dell’ordine verso chi cerca di esprimere pacificamente un voto”.

A proposito di voto, qual è il significato della vostra astensione oggi?
“L'astensione è stata utilizzata in Irlanda per decenni dai repubblicani per esprimere che non si riconosceva il Parlamento, che fosse Leinster House (della Repubblica d'Irlanda, ndr), Westminster (della Gran Bretagna, ndr) o Stormont (del Nord Irlanda, ndr). Alcuni potrebbero obiettare che è un’azione inutile, un voto buttato. Ma a mio avviso ci sono diversi aspetti positivi nell’astensionismo. Alle elezioni del 1918, tutti i membri eletti del Sinn Fein sposarono una politica di astensione, rifiutarono di sedersi a Westminster e formarono a Dublino il Dail Eireann (il primo Parlamento irlandese, ndr). Fu un duro colpo per le autorità britanniche, costrette a considerare una qualche forma di ritiro dall’Irlanda. Sfortunatamente quel ritiro fu parziale, il nostro Paese fu diviso, le Sei contee rimasero occupate. Oggi il Provisional Sinn Fein fa una politica di astensione per le elezioni di Westminster, ciononostante siede nella sottomessa assemblea di Stormont amministrando gli affari delle Sei contee occupate proprio per conto di Westminster…”.

Nel 2014 lei è stato arrestato a Derry. Può raccontarci quella circostanza?
“Stavo uscendo insieme ad altri da casa di amici, quando siamo stati avvicinati da una pattuglia della polizia che ci ha chiesto i nostri nomi. Insoddisfatti del mio nome gaelico, gli agenti mi hanno chiesto di tradurlo in inglese, ma io mi sono rifiutato. Mi hanno chiesto di scriverlo, ma non ero obbligato e dunque non l’ho fatto. Sono stato arrestato ai sensi del Terrorism Act e comparso davanti al giudice la mattina seguente. Anche quest’ultimo non riusciva a credere che fossi accusato di terrorismo e si è chiesto: ‘La polizia avrebbe agito allo stesso modo se l’uomo fosse stato rumeno o cinese?’. Ma il caso non è stato chiuso, sono stato rilasciato su cauzione e sono dovuto tornare in Tribunale quattro o cinque volte prima che il caso venisse archiviato. Potrebbe sembrare una vicenda banale, ma invece indica perfettamente come siamo trattati dalla polizia. La nostra lingua, la nostra cultura, anche i nostri sport sono sotto costante attacco”.

Anche gli sport?
“Ci sono persone che sono state arrestate perché trovate in possesso di una hurley, mazza con cui si gioca ad Hurling, uno sport gaelico simile all’hockey”.

La Brexit può aiutare la riunificazione irlandese?
“La Brexit è la grande sconosciuta. L’ipotesi di mantenere l’unione doganale in tutta l’isola d’Irlanda ha già irritato i politici unionisti a Stormont, i quali si sono detti pronti a far cadere il governo di Westminster se dovesse essere approvata una simile mossa. Ci sono poi l’idea di un confine elettronico, ma una tale tecnologia non è stata ancora inventata, e quella della frontiera aperta, ma nessuna delle due parti consentirebbe a merci e persone di viaggiare dentro e fuori i rispettivi Paesi senza controlli. E comunque, ci sono più punti di attraversamento tra l’Irlanda occupata e le Ventisee contee di quanti ce ne siano tra tutti i Paesi tra loro confinanti nell’Unione europea”.

Nel mondo della globalizzazione, ha ancora senso parlare di identità nazionale e lotta per l’indipendenza?
“Anche stavolta sarebbe troppo semplicistico rispondere solo di sì. Bisogna rivolgere lo sguardo alla storia irlandese: per quasi novecento anni siamo stati occupati, i nostri antenati sono stati affamati, picchiati, uccisi e spediti in tutto il mondo soltanto perché irlandesi. La nostra lingua e la nostra religione sono state soppresse, a tal punto che il gaelico è quasi morto. L’occupante ha incoraggiato il settarismo, che è all’origine delle marce per i diritti civili che precedettero la campagna armata dagli anni ’70 in poi. Ma ancora oggi noi siamo orgogliosi di essere irlandesi, della nostra identità. La nostra è anche una lotta per la sovranità nazionale, poiché per troppo tempo l’Irlanda è stata governata da lontano, a Westminster così come a Bruxelles, da gente che non conosce questa realtà. Noi del Sinn Féin Poblachtach (nome completo in gaelico di Republican Sinn Fein, ndr) proponiamo un sistema di governo federale per l’Irlanda”.

Eppure il Sinn Fein continua a crescere, sia nelle Sei contee che a Dublino. Esistono ancora margini di agibilità politica per voi?
“Uno degli effetti del settarismo nelle Sei contee occupate è il voto religioso: acquistano consensi i principali partiti delle due comunità e le forze più piccole sono emarginate. Nelle Ventisee contee, il Provisiona Sinn Fein è cresciuto negli ultimi anni anche a causa degli scandali di corruzione del Fianna Fail, del Fine Gael e del Labour Party. Ma quella che prima ho definito ‘socializzazione del debito’ ha svegliato le persone: alle ultime elezioni è stato eletto un numero senza precedenti di candidati indipendenti. Il prossimo voto dirà se si tratta di un segno di cambiamento reale. Noi del Sinn Féin Poblachtach continueremo a lavorare per un’Irlanda unita, convinti che quel giorno verrà”.