Iran, il grido di un popolo che chiede una vita normale

Il caos che in questi giorni si respira nelle piazze dell'Iran non ha un volto preciso, ma piuttosto un'immagine simbolica: quella degli studenti dell'Università di Teheran che hanno apertamente evitato di camminare sulle bandiere degli Stati Uniti e di Israele, disegnate per terra dal governo degli Ayatollah in sfregio ai due Paesi considerati “nemici”. Una forte forma di dissenso che, per la prima volta, getta luce sulle manifestazioni in corso nel Paese. Tracciare un quadro nitido di ciò che sta accadendo non è per nulla semplice. C'è chi sceglie il volto di Kimia Alizadeh, l'atleta di taekwondo bronzo alle Olimpiadi di Rio, fuggita nei Paesi Bassi per sottrarsi “al tavolo dell'ipocrisia” della Repubblica islamica dell'Iran, come ha dichiarato l'agenzia di stampa iraniana Isna. Sul suo profilo Facebook, Kimia si definisce “una delle milioni di donne oppresse”. Se è difficile oggi rintracciare una voce chiara del popolo iraniano, è altrettanto vero che, per la prima volta, sono la miseria e l'esasperazione ad unire i cuori pulsanti del popolo in un momento in cui la politica ha mostrato il volto della sua azione separatrice. Le manifestazioni non sono la premessa di un futuro radioso, ma la promessa che una strada diversa rispetto a quella finora dettata da Teheran possa essere intrapresa. I recenti accadimenti sono forse la scintilla verso un futuro di unità nella diversità. L'uccisione del generale Sulaimani va in questa direzione: piangendo il martire, le “due anime” del Paese si sono ricompattate e chiedono finalmente che tutto cambi.

Un popolo esasperato

Luciana Borsatti conosce bene la realtà iraniana. Già corrispondente dell'Ansa da Teheran, è giornalista freelance e autrice del libro L'Iran ai tempi di Trump (edito da Castelvecchi), di cui è in corso la pubblicazione della seconda edizione.

Secondo lei, le ultime proteste in Iran hanno reso netta una divisione fra 'due Iran'?
“È complesso definire un Paese con 80 milioni di abitanti, che ha un territorio vastissimo ed è composto da diverse etnie e religioni, dai persiani ai curdi ailla minoranza cristiana. Nel Paese ci sono aree urbane più 'occidentalizzate' e aree rurali che lo sono meno. In Iran c'è un buon sistema scolastico che garantisce un adeguato livello di istruzione a tutti, ci sono donne molto emancipate nonostante i limiti imposti loro dal codice civile fondato sul diritto islamico e determinate nel rivendicare i loro diritti. D'altra parte, nelle aree rurali le donne sono più soggette a un modello patriarcale. La situazione è complessa”.

È, quindi, difficile fare una considerazione generale?
“Se vogliamo generalizzare, c'è una parte del Paese che ha tutto l'interesse a mantenere lo status quo e un'altra parte di Iran che coincide con le aspirazioni dei giovani colti e inurbati che vorrebbero una definitiva apertura verso il modo,  più opportunità di occupazione o di diventare imprenditori di se stessi. Questo è l'unico, vero asse con cui forse si può dividere la società iraniana. In questa fase, le politiche di massima pressione attuate dal presidente Usa Trump hanno avuto come risultato il rafforzamento della parte più conservatrice, più chiusa all'Occidente. Ed è a questa parte che i giovani si rivoltano in queste ultime proteste, unendovi anche quel governo moderato che aveva loro promesso aperture , ma non è riuscito a dargliele. E la rivolta si è così allargata ffino anche a colpire una struttura della Repubblica islamica c che tolgono una serie di libertà che invece loro rivendicano”.

Cosa sta accadendo in Iran?
“Bisogna fare un salto indietro. Nel 2015 l'Iran ha rinunciato ad esercitare una parte della propria sovranità in campo energetico accettando di limitare il proprio programma nucleare civile. L'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica ha certificato che dal 2009 in poi il Paese non faceva nemmeno più studi sul possibile uso del nucleare a scopo militare. L'uscita degli Usa da quell'accordo è l'origine di tutti i mali di oggi, perché l'Iran lo ha firmato e rispettato e Washington appunto ne è uscita. con Trump che ha imposto sanzioni all'Iran. Imponendo anche all''Europa di non rispettare gli accordi presi con l'Iran, da cui ci si attendeva una collorazione economico che avrebbe migliorato la l'economia del Paese. Da questo accordo l'Iran si aspettava di espandere la propria economia, che avrebbe portato investimenti stranieri ed europei nel Paese, un aumento del commercio bilaterale tra l'Iran e l'Europa, quindi una crescita dell'economia, ora bloccata dalle sanzioni contro la Repubblica Islamica”.

Sono, dunque, le sanzioni la causa del malcontento della società iraniana?
“Le proteste di novembre, come quelle del 2017, nascono da una situazione di grave crisi economica: l'Iran non ha potuto godere  dei benefici che dovevano arrivargli dal nucleare. Le dure sanzioni Usa, inedite nella storia della Repubblica islamica, hanno messo in ginocchio l'economia iraniana. Ma non sono l'unico motivo delle difficoltà dell'economia iraniana:le sanzioni si sono innestate su problemi strutturali che il governo di Rohani sperava di poter affrontare proprio grazie all'accordo sul nucleare, ma non ha potuto farlo perché l'uscita di Trump dall'accordo e le nuove sanzioni non hanno fatto altro che rafforzare chi quelle disfunzioni economiche ha interesse a mantenerle all'interno del Paese. Mi riferisco, in particolare, ai guardiani della Rivoluzione che, oltre a essere una potenza militare e politica , sono anche una potenza economica, che impedisce all'economia del Paese di avviare quella modernizzazione e quell'apertura al mondo auspicata dal governo del moderato Rohani”.

Come s'inseriscono i dissensi in tutto questo scenario?
“Le proteste sono l'espressione diretta di un popolo esasperato da queste condizioni economiche che perdurano da troppo tempo: alta inflazione, svalutazione del riyal, e tutto quello di cui ci hanno raccontato le cronache. Le proteste di novembre nascono perché, sempre in un tentativo di modernizzazione dell'economia, il governo di Rohani ha pensato di togliere alcuni sussidi al prezzo della benzina. L'ha fatto con una mossa a sorpresa che ha esacerbato la rabbia gente. Si è poi aggiunta la dura repressione delle manifestazioni, con almeno qualche centinaio di morti, secondo quanto riportato da Amnesty International. L'Iran non ha fatto alcuna cifra sul numero delle morti”.

C'è una differenza con le proteste attuali?
“A novembre, le manifestazioni sono state estese ma hanno portato anche molti episodi di estrema violenza, te, come mai s'era verificato in passato. Nessuna violenza di questo tipo v'era stata nel 2009 con il Movimento Verde, nemmeno a cavallo fra 2017 e 2018, quando le proteste  erano state meno numerose ma ugualmente estes neel Paesee. Stavolta, invece, sono state molto numeros soprattutto nelle aree economicamente più disagiate  e hanno portato a distruzioni di pompe di benzina e danni alle banche”.

Chi ha causato questi danni?
“È un interrogativo rimasto aperto. Faccio fatica a pensare che buona parte dei giovani e meno giovani scesi in strada a metà novembre fossero intenzionati a distruggere le banche o le pompe di benzina. Le ipotesi sono due: secondo l'Iran, in mezzo ai manifestanti c'erano 'elementi estranei' che hanno provocato danni che potessero portare al tanto agognato regime change voluto dai nemici dell'Iran e dall'opposizione esterna. La seconda lettura è che, fra le stesse forze dell'ordine, ci fosse qualcuno che abbia fatto da provocatore. Questa volta, il fenomeno della provocazione è stato vastissimo, e ha reso più facile una repressione molto dura, coincidente con un altro inedito: il blocco totale di internet per circa una settimana”.

Oggi qual è la natura delle manifestazioni?
“Se le prime vedevano partecipare la gente che soffriva per le condizioni economiche peggiorate negli ultimi due o tre anni, queste ultime nvece manifestazioni di rabbia e dolore per il missile che ha fatto esplodere l'aereo di linea ucraino. La gente era arrabbiata per questo e perché il governo non ha detto subito la verità.  La gente è esasperata”.

Quali sono le cause di quest'esasperazione?
“Se l'accordo sul nucleare fosse stato rispettato da Trump, che a tutti i costi voleva cancellarlo sin dai tempi della campagna elettorale, oggi avremmo capitali, anche europei, investiti in Iran, avremmo più giovaniche trovano lavoro e non aumentano  la fuga dei cervelli come continuano a fare. Avremmo una situazione economica migliore in Iran e non si sarebbe arrivati a questa tensione, che nel frattempo è diventata anche tensione militare. Le sanzioni di Trump sono state percepite come una sorta di guerra economica, cui l'Iran ha cominiciato a rispondere soltanto negli ultimi mesi, perché per il primo anno di sanzioni l'Iran ha ripetutamente chiesto aiuto all'Europa perché lo aiutasse ad avere gli attesi benefici economici che dovevano derivargli dall'accordo”.

Come si spiega l'appoggio di Trump alle manifestazioni?
“L'inedito di questa volta è che Trump ha scritto un tweet in farsi. Poteva anche risparmiarselo, visto che gli Iraniani conoscono benissimo l'inglese, sono andati a studiare in America e sono molto più filoamericani di molta parte dell'opinione pubblica araba. Quello che Trump continua a fare è rivolgersi agli Iraniani sostenendoli nelle loro proteste, quando è stato il primo a far loro del male. Trump è odiato in Iran, dai vertici come dalla gente normale. Quest'ultima vuole solo fare una vita normale, ma gli Usa glielo impediscono. Paradossalmente, la normalità l'avrebbe voluta anche il governo di un moderato come Rohani, mentre forse non la vogliono gli ultra-conservatori contro i quali Rohani si è scontrato nel periodo in cui si intavolava l'accordo sul nucleare”.

Cosa è successo allora?
“Nel 2011, quando ero corrispondente dell'Ansa da Teheran, ho seguito le tappe dell'ultima fase della trattativa sul nucleare e  ho potuto constatere quante volte Rohani e Zarif siano stati  messi sula graticola dagli ultra-conservatori che continuavano ad essere scettici sull'Occidente e gli Usa. Con Trump, costoro hanno avuto ragione, perché le azioni dell'attuale presidente sono state subito percepite come un tradimento. Quello che ha fatto Trump è stato rafforzare quella parte iraniana contraria all'Occidente. Si teme che Trump voglia  un regime change. Ma quanti regime change voluti dall'America di recente hanno avuto esito positivo? L'Iraq? La Siria? La Libia? Perché mai gli iraniani dovrebbero accettare un regime change indotto dall'esterno?”.

Le proteste sono anche una voglia di cambiamento dell'establishment iraniano?
“No, l'establishment iraniano è sempre più arrocato sulle sue posizioni perché teme la rabbia della gente. La gente è stanca di tensioni e guerra e se la prende con i loro dirigenti che non hanno fatto abbastanza per evitare questa situazione di tensioni”. 

Si può parlare di un atto di guerra?
“Quella che è in corso è a tutti gli effetti una guerra, anche se non è stata dichiarata tale da nessuno. Un atto di guerra da parte degli Usa è stato uccidere Suleimani, così come le sanzioni degli Usa all'Iran sono parte di una 'guerra economica'. Teheran, dal canto suo, ha reagito con un atto di guerra molto calibrato e studiato. Sono state, infatti, attaccate due basi Usa in Iraq, però avvertendo tutti quanti prima. Quello che di terribile è accaduto è che, mentre c'è stata un'azione mirata, per errore hanno buttato giù un aereo civile, uccidendo per di più tanti ei compatrioti. Questo è quello che la gente iraniana non può perdonare alle proprie autorità: avere ucciso degli iraniani, aver mentito su questo e non aver fatto abbastanza per evitare questa spirale”.

Come si situa la parte 'moderna' della società nelle proteste?
“La gente che scende in piazza è stanca di un sistema per certi versi anacronistico, illiberale, con scarse libertà civili, in cui l'elemento più repressivo si è rafforzato. Però l'esasperazione è dovuta anche al ruolo degli Usa nell'aggravare le condizioni economiche del Paese”

Come s'innesta l'elemento religioso?
“L'elemento religioso è quasi  inesistente in questa fase, anche perché ormai , soprattutto nella popolazione inurbata, 'è una certa diffidenza verso quelle autorità religiose che si sono identificate con un ruolo politico. Ma la gente che scende in strada lo fa per rivendicazioni economiche e ora anche politiche”.