Il rebus dell'Afghanistan contemporaneo

Un conflitto che vede impegnato il nostro Paese da 17 anni e che è costato la vita a ben 52 soldati italiani. La guerra in Afghanistan, la più lunga mai affrontata dal nostro Paese dopo il 1945, rappresenta un vero rebus geopolitico di difficile soluzione. Per offrire una visione di come stabilizzare la Repubblica islamica, e per confrontare le diverse opinioni, analisti, militari e accademici si sono dati appuntamento alla presentazione del libro “Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga”, scritto da Claudio Bortolotti del Centro militare di studi strategici. L'evento ha visto la presenza, tra gli altri relatori, anche della ministra della Difesa, Elisabetta Trenta.

La regione

“Sono passati 31 anni dalla cacciata dell'esercito sovietico dall'Afghanistan” e da allora la comunità internazionale non ha mai distolto l’attenzione dall'area, ricorda alla piccola platea gremita della Sala delle conferenze di Palazzo Theodoli-Bianchell, la ministra della Difesa. “Consentitemi di precisare che il nostro Paese, con le sue forze armate, ha sempre agito in aderenza al mandato ricevuto”, confermando la “volontà di essere parte fondante della NATO, assumendosi l'onere di continuare a mantenere la responsabilità dell'area Ovest del Paese all' interno della missione. Come Paese alleato -continua la Ministra- abbiamo la responsabilità di preservare i risultati finora raggiunti in termini per esempio dei diritti delle donne o in termini di crescita del tasso di scolarizzazione”. La situazione da cui si è partiti era molto complessa, racconta Alberto Pagani, membro della Commissione Difesa della Camera del Partito Democratico. L’Afghanistan ha vissuto gli ultimi 40 anni in una guerra civile. Questo contesto ha reso possibile la crescita del terrorismo di matrice islamica: tra i mujahidin che combattevano i sovietici, per esempio, “il tesoriere cappellano militare dell'operazione era un saudita. Si trattava di un giovane rampollo, il diciassettesimo di cinquantasette figli di un imprenditore specializzato nel campo dell'edilizia, che era molto pio e che aveva restaurato le mosche di Medina e dalla Mecca. Il figlio di Mohammed Bin Laden -questo era il nome dell'imprenditore- Osama, non combatté più di tanto nella guerra. Si occupava più che altro di logistica.” Per questo “si narra che si portò via un dischetto, un floppy disk con un database che conteneva tutti i nomi e i riferimenti dei guerriglieri che avevano combattuto contro i Russi”. Un primo passo per costruire quella che poi divenne Al Qaida, in lingua araba “la base”.

Il futuro

“Una teoria abbastanza conclamata diceva che una parte dei foreign fighters si sarebbe rivolta verso l' Occidente”, spiega l'ex deputato Andrea Manciulli. “Tuttavia i dati e le evidenze ci hanno mostrato che la tendenza fra i jihadisti occidentali a rientrare in patria era una scelta abbastanza minoritaria e che il nucleo più consistente di returnees va di nuovo verso lo scenario dell'Afghanistan, del Pakistan, passando dall'Iran”. Ma esiste un altro fenomeno, nuovo ma altrettanto pericoloso, che grava sul futuro dell’Afghanistan: si tratta del ritorno dalla Siria dei combattenti addestrati dall' Iran appartenenti alla minoranza sciita degli Azzarà”. Il dato è assai preoccupante perché introduce un nuovo elemento nel futuro dell' Afghanistan, e cioè la possibilità che possa determinarsi un confronto anche tra sciiti e sunniti, cosa che il Paese non ha mai conosciuto in passato. Per quello che riguarda il difficilissimo processo di pacificazione della regione non esistono soluzioni facili. Tuttavia, Alessandro Politi, direttore del NATO Defense College Foundation, richiama l'attenzione su quale sia la visione politica dei nostri interlocutori: “è una notizia delle nove e quaranta di oggi, data dalla Reuters, che i talebani hanno costretto alla chiusura una serie di centri di salute di una ONG svedese (la Sca), dopo aver costretto alla chiusura serie di centri medici della Croce Rossa internazionale. Questo è un elemento per capire qual è la natura del nostro interlocutore politico”, un problema che si aggrava con “il sotto investimento” civile e politico che la comunità internazionale ha fatto nella Repubblica islamica.

La mediazione

Se si considera che il 55% dei casi di scontri all'interno dell'esercito afgano “sono dovuti a problemi di natura culturale, cioè a fraintendimenti, offese inconsapevoli, ci rendiamo conto che un problema di fondo esiste o meglio esisteva all'epoca”, spiega Claudio Bortolotti. “Questo libro nasce inizialmente proprio come uno strumento stampato con la stampante del reparto per il personale militare e distribuito a mano al personale che si recava in Afghanistan”.