Il dopo Soleimani: quanto rischiano gli Italiani in Iraq?

Tutti gli occhi internazionali sono puntati sul Medio Oriente. Anche quelli dell'Italia che, dopo l'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, colpito da un attacco aereo americano nei pressi dell'aeroporto di Baghdad giovedì scorso, guarda al territorio iracheno con attenzione e prudenza. Sono 900 i militari italiani presenti in Iraq nell'ambito dell'operazione Prima Parthica; se, poi, si allarga lo spettro al Medio Oriente, includendo l'Afghanistan, il Kuwait e il Libano, sotto la bandiera tricolore si riuniscono circa 3mila unità. Nello scacchiere medio-orientale, sin dagli anni Novanta, la presenza italiana è legata alle operazioni della Nato che, attraverso una rete internazionale, cerca di drenare dall'area la presenza del Daesh.

Al fianco degli iracheni

Se in Kuwait la presenza italiana è relativamente meno esposta – date le operazioni di sorveglianza e ricognizione non armata del Paese – desta allerta la missione italiana proprio in Iraq. Nella capitale sono 900 i militari italiani in una missione che è costata 166 milioni di euro soltanto nel 2019, la più cara delle 34 operazioni italiane, come sottolinea Avvenire. Dopo l'uccisione di Soleimani, la Nato ha deciso di sospendere le operazioni di inquadramento dei militari iracheni, condotte anche dalle unità italiane. Per capirne di più, Interris.it ha intervistato Alessandro Marrone, Responsabile del Programma “Difesa” dello Istituto Affari Internazionali, attualmente docente presso l’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI) del Ministero della Difesa italiano e ha insegnato per quattro anni all’Università di Perugia.

Prof. Marrone, in Iraq ci sono decine di installazioni americane, probabili target di Teheran. C'è il rischio di un coinvolgimento delle truppe italiane nell'area?
“Il rischio zero non esiste, perché si opera in un teatro attivo. Da un punto di vista territoriale, va detto che sia l'Iraq che l'Iran condividono un lungo confine. Ciò significa che è molto facile per l'Iran proiettare missili e razzi contro il territorio iracheno. Nel sud dell'Iraq, per giunta, la popolazione è a maggioranza sciita, quindi ben disposta ad operare con probabili attacchi. Ma sicuramente, gli obiettivi sono statunitensi, l'Iran usa prudenza nel coinvolgere altri Paesi”.

E per quanto riguarda la presenza italiana, invece?
“L'Italia è presente in Iraq nelle operazioni contro la coalizione dell Stato islamico sin dal 2014 su mandato dell'Onu. Questa missione gode di buoni rapporti con gli iterlocutori locali e il contigente italiano è stato bravo a costruire relazioni buone sia con i curdi che con i sunniti sunniti. Direi che non c'è un rischio diretto come nel caso delle truppe Usa”.

Non siamo il bersaglio numero uno, ma la Nato ha da poco sospeso la missione Inherent Resolve di inqadramento dei militari iracheni, che ha come attori anche gli italiani…
“Il quadro generale sta cambiando, perché finora c'è stata una forte escalation di tensioni, seguita da attacchi. In merito al ritiro delle truppe di coalizione contro lo Stato islamico che operano in Iraq, va detto che il parlamento del Paese ha votato perché questa avvenga – sebbene si tratti di un voto esiguo, con 160 sì su un totale di 328 voti -. Perché questa risoluzione diventi legge serve, perl, un atto del governo e non so se i tempi saranno celeri perché ciò avvenga. Se così fosse, ci troveremmo dinanzi a una situazione analoga a quella del 2011 e 2014”.

Gli analisti internazionali avvertono che Daesh sta riprendendo forza in loco
“Con il ritiro delle truppe, lo Stato islamico riattecchisce. Daesh, infatti, agisce laddove si crea un vuoto. Se, dunque, i principali stati che lo contrastano, come Turchia, Iran, Arabia Saudita, insieme a potenze esterne come Russia e Usa, non lasciano spazio, le milizie non hanno la possibilità di governare. Nella formazione delle forze irachene da parte della Nato, sicuramente le operazioni congiunte di pattugliamento espongono le unità militari degli altri Stati, come l'Italia, agli stessi rischi. La sospensione delle attività che si citava prima è frutto di prudenza. L'operazione non è stata cancellata”.

Ci può essere un'eco delle tensioni in Libia?
“L'Iran è distante dalla Libia, sia geograficamente che per interessi. Nel Paese non c'è una componente sciita su cui può contare, come invece avviene in Iraq. Tra l'altro, le alleanze sono molto fluide: in Libia, i principali attori che si fronteggiano sono la Turchia e l'Egitto. Ma un effetto indiretto della situazione in Iran, in realtà c'è: se gli occhi internazionali puntano all'area del Medio Oriente, il generale Khalifa Haftar, che minaccia di rovesciare il governo di Tripoli, potrebbe avere più ampio margine di manovra”.