Hong Kong, la piazza chiama Trump

Passata l'ondata, anomala ma tutto sommato tranquilla, della giornata elettorale di una settimana fa, Hong Kong torna alla consueta piazza, pronta a mettere da parte la parentesi del confronto democratico e a scagliarsi nuovamente contro l'amministrazione cittadina, ora con l'ulteriore consapevolezza di avere il sostegno nientemeno che degli Stati Uniti. E per inciso, di Donald Trump in persona. La firma del Democracy Act ha fornito ulteriore linfa ai manifestanti che, ora, invocano il presidente Usa direttamente dalle piazze, lanciando cori e slogan pro-Tycoon mentre sventolano le stelle e le strisce della bandiera americana: “Trump per favore libera Hong Kong” è il motto più utilizzato. Qualcuno fa addirittura meglio in termini di fantasia, richiamando le elezioni statunitensi di tre anni fa: “Make Hong Kong Great Again“.

Tre cortei

Per l'ennesimo weekend di protesta, Hong Kong decide di presidiare con cortei di dissenso quasi tutti i punti nevralgici della città: una manifestazione si è diretta verso il consolato americano, dove sono stati lanciati i cori pro-Trump e gli inneggiamenti al Democracy Act; un altro corteo ha puntato verso il Politecnico, al centro nei giorni scorsi di un vero e proprio assedio, con tanto di presidi schierati delle Forze dell'ordine e catapulte puntate dagli studenti verso l'area sottostante; altri dimostranti hanno puntato nell'isolato in cui sorge la sede del governatorato locale, il vero fulcro delle proteste, non solo per via dell'extradition bill. E il respiro internazionale della protesta nel Porto profumato, ormai andata ben oltre le motivazioni iniziali, ha iniziato a toccare non solo le istanze dei manifestanti ma anche quelle del governo centrale, dapprima stizzito contro Trump e, ora, anche contro l'Alto commissario Onu per i Diritti dell'Uomo, Michelle Bachelet, accusata di “fomentare la violenza radicale” a Hong Kong.

Il caso Bachelet

Bachelet, nella giornata di ieri, aveva detto la sua sulla situazione in città, con un editoriale a sua firma sul South China Morning Post, il principale quotidiano cittadino, invitando la governatrice Carrie Lam a sollecitare l'apertura di un'indagine imparziale a carico delle Forze dell'ordine, accusate di aver represso con violenza le proteste hongkonghesi. Il dissenso di Pechino è stato manifestato via Ginevra, dove l'ambasciatore cinese all'Onu ha parlato di “pressione sul governo (autonomo)” portato dalle parole di Bachelet, che “avrà il risultato di fomentare i facinorosi a condurre azioni di violenza ancora più radicale”.