Escalation in Libia, ecco cosa sta succedendo

Una preoccupante escalation di violenza quella che ha costretto il Governo di accordo nazionale di Tripoli, guidato da Fayez al-Serraj, a dichiarare lo stato di emergenza all'interno della capitale, assediata dalle milizie ribelli della Settima brigata. Una situazione estremamente tesa che innalza inevitabilmente il già forte livello d'instabilità politica all'interno dello Stato nordafricano, con ripercussioni sull'intera area mediterranea. Come spiegato a In Terris da Lorenzo Marinone, responsabile del desk per il Medio Oriente e il Nord Africa del Centro studi internazionali (Cesi), quanto sta accadendo alle porte di Tripoli chiama in causa non solo le varie forze che operano nel Paese ma l'intera Comunità internazionale e il suo programma per il complicato processo di riconciliazione, mai così complesso dalla capitolazione del regime del rais Gheddafi.

 

Dott. Marinone, da Tripoli arrivano notizie frammentarie dell'assedio. Qual è, al momento, la situazione dentro e fuori la capitale?
“La situazione è estremamente fluida perché in casi come questo, dove ci sono una quantità di gruppi armati in circolazione non inquadrati in delle strutture stabili né facenti parte di coalizioni, quello che succede sul campo può evolversi in poche ore, in un senso o nell'altro. E' un tratto caratteristico della Libia ed è alla base del motivo per cui sono scoppiati questi scontri. All'interno di Tripoli, nell'ultimo anno e mezzo, si è andato consolidando quello che molti osservatori definiscono 'un cartello' di milizie, per fare un paragone calzante coi narcos del Sudamerica, i quali hanno un controllo del territorio e molta influenza a livello locale. Questa è la loro forma di potere: non solo hanno il controllo del territorio all'interno della capitale ma, controllando di fatto la sicurezza delle istituzioni, acquisiscono un potere negoziale estremamente forte e non hanno esistato ad affiancare ai sistemi paramafiosi (in alcuni quartieri di Tripoli esistono racket di ogni tipo), a usare la forza e l'intimidazione per influenzare la politica a loro vantaggio”.

Quali sono le loro rivendicazoni?
“Quei gruppi armati che si trovano oggi ad attaccare la capitale sono stati esclusi da questa spartizione (soldi, ascendente politico, ecc.) ma, prima di essere espulsi dal cartello di milizie tripolitano, erano presenti all'interno della capitale e avevano ancora la prospettiva di poter contare nel futuro assetto della Libia. Quindi, di fatto, questi sono scontri mirati a ottenere voce in capitolo e, naturalmente, accesso alle risorse materiali (armi, denaro, risorse, infrastrutture da controllare, come l'aeroporto di Mitiga)”.

Perché ora?
“Da alcuni mesi è stata impressa un'accelerazione a quello che doveva essere il processo di riconciliazione nazionale. Il riferimento è in particolare al summit organizzato dalla Francia alla fine dello scorso maggio: in quella sede sono stati convocati quattro attori (Serraj, Haftar e i presidenti dei due parlamenti rivali, Tripoli e Tobruk), quindi pochi rispetto a quanti vogliono avere voce in capitolo nello scenario libico. Ne è venuta fuori una data fissata per le elezioni in tempi brevissimi, il 10 dicembre. Il momento del voto distribuisce la legittimità agli occhi della Comunità internazionale, ed è il momento in cui si riesce a dire la propria su come verrà strutturato il futuro stato che, per adesso, a livello istituzionale è quasi inesistente. L'obiettivo è riuscire ad arrivare in tempo per la data delle possibili elezioni da una posizione di forza: tutti coloro che sono stati esclusi da Tripoli negli ultimi anni, cercano di rientrarci”.

Al momento, però, alcune milizie combattono per Serraj e il governo di accordo nazionale…
“Questi attori, in particolare la Settima Brigata (la milizia dei fratelli Kani di Tarhuna, a cui si è aggiunta una parte delle milizie di Misurata guidata da Slabadi), non sono gli unici che crecano di ritornare ad avere un peso a Tripoli, ma quelli che stanno cercando di farlo in maniera violenta. Quegli stessi gruppi armati che Serraj ha chiamato per difendere la capitale (l'altra parte di Misurata e quelli della cittàa di Zintan, cacciata da Tripoli e filo-Haftar dal 2014), hanno raggiunto uno dei loro obiettivi: tornare a essere protagonisti. Basti solo pensare che le milizie di Misurata avrebbero immediatamente predisposto un asserragliamento attorno allo snodo fondamentale dell'aeroporto di Mitiga, acquisendo un peso importantissimo. Seppure con questa patente di legittimità data da Serraj, queste milizie hanno comunque ottenuto ciò che in passato hanno tentato di conquistare in modo violento. Quindi, questa instabilità è causata da due fattori: dal fatto che non si è riusciti a creare uno schema veramente inclusivo nel processo di riconciliazione, e dalla mancanza di uno sforzo coeso da parte della Comunità internazionale nel dare manforte al governo di unità, trovatosi in una Libia dove la forza militare è distribuita fra una miriade di forze locali che possono mettere in difficoltà le istituzioni”.

A cosa è dovuto il deficit del percorso d'inclusione?
“Quello che è andato in scena, da parte di tanti attori regionali e internazionali, è stata più una logica competitiva, per cercare di curare innanzitutto i propri interessi, per poi cercare di inserirli in un quadro un po' più ampio. Però è mancata una collaborazione che avrebbe permesso di dare stabilità a un Paese che rischia di diventare un buco nero”.

Ha citato il vertice di Parigi. E' possibile che l'incontro a quattro possa avere involontariamente complicato la situazione, sia alle realtà libiche che alla diplomazia italiana?
“La posizione dell'Italia è sempre stata quella di cercare il dialogo con tutti, anche con Haftar. In questi anni, il nostro Paese non ha mai smesso di cercare il dialogo con il generale, ci sono stati incontri pubblici di altissimo livello ma, soprattutto, c'è stato un dialogo costante sottotraccia. Nel momento in cui la Francia restringe questo ventaglio di dialoganti, non è tanto un ostacolo ai piani dell'Italia, quanto più una sorta di schiaffo a tutti quegli attori che rimangono esclusi. In questi anni, queste milizie sono state inserite in macrocoalizioni ma non sono schieramenti rigidi: nel momento in cui a un gruppo conviene di più allinearsi col proprio rivale, lo farà senza problemi. Questo perché tutti cercano di non perdere i vantaggi della vittoria contro Gheddafi”.

Ovvero?
“Gran parte di questi gruppi ha combattuto nella rivolta del 2011 e hanno da subito reclamato un ruolo nella costruzione della Libia post-Rais. Quando questa possibilità gli viene negata, cercheranno di fare di tutto per tornare protagonisti. Per questo non era imprevedibile che un'accelerazione del processo politico, fatta in modo esclusivo, si traducesse in un aumento dell'instabilità. Tripoli diventa l'epicentro di questi scontri perché sede del potere politico riconosciuto internazionalmente ma potrebbe succedere ovunque”.

Ad esempio?
“Alcuni mesi fa, il generale Haftar era scomparso e nemmeno i suoi più stretti collaboratori sapevano dove fosse, prima di venire a conoscenza del suo viaggio in Francia per farsi curare. In quei pochi giorni, è iniziata una corsa all'interno della coalizione per la successione, con attentati a personaggi di altissimo livello nelle gerarchie militari della Cirenaica. Lotte intestine per lo scettro di Haftar che sono un fenomeno speculare a quanto vediamo oggi a Tripoli. Un punto importantissimo, che permetterebbe di capire come portare avanti questo processo di riconciliazione nazionale, è focalizzarsi non tanto sulla singola persona ma di guardare più che altro a qual è la sua platea di legittimità. Quello che potrebbe fare la Comunità internazionale, è costruire una struttura solida alla quale vengano distribuiti compiti, privilegi, diritto e doveri”.

Una soluzione che metterebbe d'accordo le varie realtà territoriali?
“Un aspetto importante è che, per la storia di questo Paese, le realtà territoriali hanno maturato una diffidenza viscerale verso qualsiasi sistema di potere centralizzato. Hanno vissuto per quarant'anni in un sistema dove tutto faceva capo al Rais e qualsiasi localismo era completamente sacrificato a questa struttura di potere. Nel momento in cui viene cacciato Gheddafi, nessuno di questi attori si può fidare di concedere il potere a un attore in particolare. Le varie fazioni libiche vogliono evitare che si ripeta un sistema politico come quello dell'ex leader. Quindi, con una strategia frettolosa che non va a indagare su quali siano le varie rivendicazioni, inevitabilmente chi percepisce di essere stato lasciato fuori farà di tutto per cambiare le carte in tavola. E vorrei aggiungere una cosa”.

Prego…
“Il ruolo delle Nazioni Unite, le quali hanno un piano di azione presentato a metà dello scorso anno dall'inviato per la Libia, Ghassan Salamé, nel quale è previsto un passaggio che deve avvenire prima di qualsiasi elezione: tenere delle assemblee nelle varie municipalità e cercare di dare voce a tutti gli attori locali per poi far confulire il risultato in una grande assemblea nazionale che dovrebbe essere la piattaforma inclusiva dalla quale partire. Questo approccio è estremamente realisitco e, anche se sarà lento e non darà risultati nell'immediato, meglio di altri permetterà di evitare che alcune realtà diventino spoiler e tentino perciò di far deragliare questo processo, come avvenuto in questi anni”.

E' possibile fare una previsione su ciò che accadrà nei prossimi giorni?
“La situazione è troppo fluida per fare una previsione. Le alleanze sono repentine ma una delle cose che potrebbe accadere è lo scardinamento dello status quo all'interno di Tripoli. E' possibile che vengano ampliati gli attori in campo o che vengano cacciati quelli attualmente in città e che quindi ci sia un ricambio completo rispetto agli ultimi due anni. Non si tratta di qualcosa che dobbiamo guardare come uno sviluppo negativo ma potrebbe essere una finestra di opportunità che si apre per organizzare un approccio più inclusivo”.