Danimarca si interroga sul terrorismo: l’integrazione inizia dalla scuola

La Danimarca continua a farsi domande sulla propria politica di integrazione, senza tuttavia trovare risposte esaurienti. Cosa sia andato storto Omar Abdel Hamid al Hussein e la Danimarca dove il killer del 15 febbraio è cresciuto, ha studiato, a tirato alla boxe non è chiaro per il Paese che ha vissuto nella giornata di domenica il suo personale Charlie Hebdo. Le stesse domande se le sta facendo il padre del ragazzo, palestinese emigrato dalla Giordania nel Paese nordico, che non smette di ringraziare Coopenaghen per l’accoglienza ricevuta, e se le sta ponendo anche l’intelligence, che continua a cercare indizi della radicalizzazione del ragazzo nelle amicizie e nel suo quartiere. Non si riesce a capire cosa non abbia funzionato.

Forse per comprenderlo meglio, bisogna allargare il proprio sguardo alle radici, vedere la società nel suo inizio, ovvero la scuola. Già dall’entrata si vede che le bambine, bionde brune o velate, hanno interazioni molto migliori, si mescolano senza notare le differenze, mentre i loro coetanei maschi, specialmente gli stranieri, tendono a rimanere più in disparte. Ma è proprio l’entusiasmo che i ragazzi mettono nella loro istruzione a far risaltare le cose, infatti dice Safia, una ragazzina di origine irachena: “Mi piace tanto venire a scuola, quando ci sono le vacanze non vedo l’ora che finiscano perché in classe ho le mie amiche”. I suoi coetanei non hanno molta voglia di parlare, sbarcano dal bus e restano tra loro. “La scuola è ok, finché siamo qui va bene, ma poi fuori è diverso, il fatto che mi chiami Rashid mi fa guardare diversamente da tutti”, dice sul marciapiede opposto. Risulta quindi evidente che l’integrazione viaggia a due velocità diverse per uomini e donne, probabilmente per il forte ruolo patriarcale delle cività mediorientali, poco riconosciuto nell’Occidente. Oppure perchè spesso i ragazzi migranti iniziano subito a lavorare accontentandosi di ciò che trovano e quindi spesso sono costretti a cambiare posto di lavoro dopo pochi anni, condizione in cui è difficile creare legami stabili e duraturi.

Spesso sono anche i luoghi comuni o la leggerezza di alcuni insegnanti a far sentire inadatti i ragazzi, a parlare è l’assistente sociale per i rifugiati bambini Shadman Salih , che afferma che “la scuola danese appena vede un bimbo di origini irachene o turche o palestinesi lo tratta da musulmano – e prosegue – a mia figlia per esempio hanno chiesto come mai mangiasse carne di maiale e oggi lei non ne vuole mangiare più”. Il risultato è che oltre alle famiglie, che spesso fanno sentire i figli diversi perpetrando tradizioni originarie, ci si mettono, in buona fede, anche alcuni insegnanti. Comunque non può essere la scuola a spiegare tutto, per questo sarebbe buono se tutto l’Occidente continuasse a porsi domande e a cercare soluzioni per una migliore integrazione.