Dal referendum all'accordo: le tappe della Brexit

Fatto l'accordo, ora c'è da fare il voto. Boris Johnson centra l'obiettivo, mette in tasca l'intesa con Bruxelles e torna a girarsi verso Londra consapevole delle forti opposizioni dei laburisti e dei nordirlandesi del Dup. Nel bene o nel male, l'ultimo atto sarà il voto del Parlamento che, in qualche modo, metterà fine alla vicenda Brexit così come l'abbiamo conosciuta finora. Una storia che affonda le sue radici agli albori dell'Europa unita.

L'antenato

Se si pensa al peso rivestito dal Regno Unito nella storia d'Europa prima dell'Unione, verrebbe quantomeno da riflettere sul fatto che, all'epoca della fondazione, non fu tra i Paesi che scelsero di tirar su la Comunità economica europea. In un senso e nell'altro. Un'adesione arrivata tardi, nel 1973, che fin dall'iniziò suonò in modo stonato dalle parti di Londra, tanto che già due anni dopo vi fu il primo tentativo di Brexit in una situazione che, per paradosso, vide affiancarsi i due principali partiti britannici. L'allora leader Lab, Harold Wilson, dovette fare i conti con una fronda interna guidata da sette dei suoi ministri visto che lui, il premier, scelse di sostenere il “sì” al Remain esattamente come (caso quasi unico) la gran parte dei conservatori guidati dalla leader ascendente Margaret Thatcher. Allora il popolo britannico preferì restare nel novero della Cee, mettendo fine per oltre quarant'anni a qualsiasi tentativo di svincolarsi dalle regole europee. Wilson incassò il consenso popolare puntando sulla rinegoziazione, strappando un'intesa a Dublino che concesse agli elettori quel tanto che bastava per convincerli che i cataclismi paventati dai favorevoli alla Brexit non avevano ragion d'essere grazie all'accordo raggiunto con i vertici europei.


L'ex premier laburista Harold Wilson durante la campagna elettorale per il Remain

Il giorno del Leave

Nel 2014, quando il premier David Cameron decide di fare la stessa cosa che fece Wilson, scegliendo la via della rinegoziazione con l'Unione europea, gli addendi erano già invertiti, così come il sentimento del popolo britannico. Il piano del premier prevedeva una revisione sostanziale degli accordi che, in caso di Remain, avrebbero modificato parte dell'influenza europea sull'autonomia londinese, soprattutto sul piano economico. Due anni dopo, il 23 giugno 2016, quando i termini dell'accordo Cameron erano già noti, emerse il contraddittorio spirito britannico in merito alla questione europea, a dire il vero mai perfettamente chiara, né a Bruxelles ma, a quanto pare, nemmeno alla Gran Bretagna stessa: il 67,2% che cementificò il Remain all'epoca del primo referendum fu sostituito da uno striminzito 51,89% in favore del Leave. Un dato significativo, che sorprese un po' tutti. Da un lato perché i sondaggi indicavano i britannici come sostanzialmente favorevoli a restare nell'Ue (scelta che fecero la gran parte dei cittadini scozzesi e nordirlandesi ma anche a Londra), dall'altro perché emergeva una profonda divisione dell'opinione pubblica sul tema Brexit, come peraltro una sostanziale disomgeneità nella mappatura dei sì e dei no.

Avvicendamento a Downing Street

Non occorre molto a David Cameron per prendere atto della sconfitta. Il premier auspica una nuova leadership e, nonostante l'incertezza dell'elettorato, il governo che sarebbe venuto dopo di lui avrebbe dovuto affrontare la più complicata e, almeno parzialmente, inattesa sfida della sua storia, quella che l'accordo-Wilson aveva scongiurato quarant'anni prima. Cameron lascia la leadership della coalizione Tory-LibDem l'11 luglio 2016 e, due giorni dopo al suo posto subentra Theresa May. Una formazione particolare quella del nuovo governo, con una leader conservatrice di posizioni euroscettiche ma sostenitrice del Remain e un esecutivo composto da personalità di spicco dell'ala più oltranzista degli anti-europei, primo fra tutti il ministro degli Esteri Boris Johnson.

L'assestamento

In questa fase, la Brexit assume i suoi connotati, si assesta, con la nomina di David Davis a capo delle trattative per il Regno Unito e quella di Michel Barnier come controparte europea, permette solo di oltrepassare il passaggio dell'anno. Le trattative vere e proprie inizieranno nella primavera del 2017, quando la European Union (Notification of Withdrawal) Bill incassa il sì del Parlamento e l'ambasciatore del Regno Unito presso l'Ue consegna al presidente del Consiglio, Donald Tusk, la lettera ufficiale con la quale il premier chiede l'attivazione dell'articolo 50. L'iter parte con una deadline di lì a due anni: 29 marzo 2019, con May che già in gennaio, con il suo discorso di Lancaster, parla di una hard Brexit, ovvero un'uscita non solo dai dettami dell'Ue ma anche dalle regole del mercato unico, sostenuta anche dall'oltranzista ala brexiteer. Su questo punto si creeranno, di lì a poco, le principali spaccature fra i contraenti ma anche sul piano interno. Theresa May prova a legittimare la sua posizione, in giugno convoca elezioni anticipate convinta di incassare il consenso dell'elettorato e procedere così a una Brexit alle condizioni britanniche. Il voto dell'8, però, è un flop: May incassa appena il 42,3%, incalzata dai laburisti di Jeremy Corbyn e riceve in extremis l'appoggio degli unionisti nordirlandesi del Dup, che le consente di restare a Downing Street.

L'allarme

La prima stretta di mano fra May e Juncker è datata 8 dicembre 2017: accordo di massima sui costi dell'uscita, sui diritti dei cittadini e sulla frontiera tra le Irlande. E' un periodo di transizione però: la premier affronta la seconda fase di negoziati assumendo una deriva diversa che allontana le ipotesi di hard Brexit per aprirsi a un accordo commerciale con l'Unione che riveda le regole del mercato unico senza svincolare del tutto il Regno Unito dal resto del continente, puntando sulla cosiddetta zona di libero scambio. La progressiva deriva pro-Europa del piano May finisce per scontentare i falchi della Brexit che, a luglio, fanno saltare il banco: Johnson e Davis lasciano, creando una profonda spaccatura interna ai Tory. Al loro posto subentrano Jeremy Hunt e Dominic Raab ma la questione Brexit inizia a mettere in fermento la politica britannica, di colpo non più coesa sulle modalità di uscita. Il testo che regola le modalità di uscita, però, incassa lo stesso il sì dell'Europa e dell'esecutivo britannico. Non quello di Raab, che si dimette. Con lui altri tre ministri.


Theresa May rassegna le sue dimissioni (Photo © AP)

La fine del governo May

La bomba backstop esplode a dicembre 2018, quando dai tabloid britannici emerge la possibilità che l'Irlanda del Nord resti nel confine doganale qualora l'intesa fra Uk e Ue non vada in porto. May è costretta a rinviare il voto di ratifica e il fronte anti-esecutivo si compatta ulteriormente, raccogliendo altri consensi in seno ai Tory e anche ai piccoli ma decisivi alleati del Dup. Un mese di tempo per girare l'Europa e rivedere alcune parti dell'accordo che la premier (15 gennaio 2019) si presenta alla sfida del Parlamento: persa, con 432 voti contrari. Inizia un calvario per il governo conservatore: Juncker ribadisce il no a ulteriori revisioni e i piccoli aggiustamenti apportati da May non bastano a convincere un Parlamento sempre più deciso a prendere in mano i giochi. In marzo, il piano della premier è bocciato altre due volte. Il 2 aprile il Regno Unito ottiene una dilazione al 31 ottobre sui termini di uscita e, al fine di ottenere un'approvazione alla quarta chiama, May prova a trattare coi laburisti: qualche spiraglio ma il tutto naufraga per divergenze incolmabili. Impossibilitata a rivedere i termini dell'accordo e in dirittura verso una nuova bocciatura, Theresa May rassegna le proprie dimissioni il 24 maggio, un giorno dopo le Elezioni europee.


Boris Johnson si insedia a Downing Street (Photo © EPA-EFE)

I mesi di Johnson

E' il 24 luglio quando Boris Johnson, appena eletto leader dei conservatori, approda a Downing Street, riaprendo il filone oltranzista della Brexit che, finora, era stato relegato a una fronda. Si spinge sulla hard Brexit, obiettivo “no deal” il 31 ottobre. Il Parlamento corre ai ripari, approvando una legge-paracadute che costringe il premier a chiedere un rinvio se entro il 19 del mese non otterrà l'intesa con Bruxelles. Johnson prova la mossa della sospensione parlamentare, si parla di un Queen's speech ma la Corte Suprema dichiara illegale la chiusura delle Camere. Nel frattempo, gli Yellowhammers mostrano la preoccupazione del governo per un'uscita senza accordo e la pressione di un elettorato sempre più scettico su termini e condizioni della Brexit convince il premier a fare un passo indietro, allentando la morsa oltranzista sul backstop e strappando un'approvazione insperata a meno due dalla deadline. Il Consiglio europeo dice sì: l'atto finale sarà il voto a Westminster, ancora una volta.