Cop 23, un altro fallimento

Un'altra delusione, quasi un fallimento. Il cosiddetto COP23, i colloqui annuali sul clima promossi dall'Onu che si sono svolti a Bonn hanno fatto registrare ben pochi passi in avanti su alcune questioni tecniche e gli interrogativi rimasti irrisolti sui tagli alle emissioni responsabili dei gas serra e del surriscaldamento climatico. Il vertice COP23 si è concluso nella notte italiana con l'approvazione di un documento in cui le regole dell'Accordo di Parigi contro i cambiamenti climatici iniziano a materializzarsi e in cui quasi 200 Paesi hanno ribadito il loro impegno, nonostante l'addio degli Stati Uniti, unico Paese al mondo rimasto fuori dal patto dopo l'adesione della Siria avvenuto in questa occasione. Durante l'ultimo giorno di lavori i negoziati sono andati avanti quasi ininterrottamente per 24 ore. Una maratona al termine della quale i rappresentanti delle nazioni di tutto il mondo si sono dati appuntamento al 2018 per valutare nuovamente i tagli alle emissioni. Gli incontri sono andati avanti fino a notte fonda a causa delle divergenze sul finanziamento della lotta al cambiamento climatico, che i Paesi ricchi devono finanziare ai Paesi in via di sviluppo.

Gli obiettivi

L'obiettivo principale della COP23 era mettere a punto il regolamento concreto dello storico accordo sul clima raggiunto a Parigi, nel dicembre 2015, sullo sfondo dell'annunciato ritiro degli Stati Uniti. L'accordo prevede di impedire che la temperatura del pianeta aumenti entro la fine del 2100 di due gradi rispetto all'era preindustriale (l'auspicio in realtà sarebbe di non superare il grado e mezzo). I Paesi in via di sviluppo premevano perché tutti i firmatari chiarissero i propri impegni di riduzione e, ancora più importante, mettessero nero su bianco i propri impegni finanziari per la cosiddetta mitigazione e l'adattamento al surriscaldamento climatico (in pratica per aiutare le nazioni più vulnerabili a far fronte alle catastrofi naturali che si stanno accompagnando al surriscaldamento della terra). E proprio la questione del finanziamento ha ritardato l'adozione di un accordo fino alle 5 del mattino perché i Paesi in via di sviluppo chiedevano che i ricchi dicessero con due anni di anticipo quanti soldi avrebbero dato e in che termini, in maniera che loro potessero sapere su quali fondi contare. Fonti della delegazione europea hanno spiegato che le situazioni contabili dei vari Paesi impediscono di dire, qui ed ora, quanti soldi stanziare in un orizzonte temporale di 10 anni, ma non è stata l'Ue ad opporsi, bensì gli Stati Uniti, l'Australia e il Giappone. Anche se l'uscita degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi non si concretizzerà fino al 2020, l'annuncio e il fatto che si tratta di uno dei principali donatori ha creato un clima di sfiducia.

Nel 2018 a Katowice

“C'è molto nervosismo” da parte dei Paesi industrializzati, che non vogliono scendere a compromessi su numeri e scadenze” ha spiegato Alden Meyer, osservatore dell'Unione degli Scienziati Preoccupati. Alla fine si è deciso che l'inventario delle emissioni e dei piani di finanziamento sarà effettuato nel 2018, quando la COP24 si terrà a dicembre a Katowice, la “capitale” del carbone in Polonia.

L'allarme degli scienziati

Ma il tempo stringe. Uno studio pubblicato nei giorni scorsi ha rivelato che le emissioni di gas a effetto serra, le principali responsabili del riscaldamento globale, sono aumentate nuovamente nel 2017, del 2%, dopo tre anni di relativa stabilità. E non solo: alcuni gli scienziati ritengono che gli attuali obiettivi di riduzione delle emissioni non consentiranno di raggiungere l'obiettivo, ma anzi porteranno tra i 3 e i 4 gradi in più entro la fine del secolo.

Il ruolo degli Usa

In questo quadro è fondamentale il ruolo degli Stati Uniti, il principale Paese che emette CO2 e uno dei più grandi finanziatori dell'aiuto al clima. Gli Usa partecipano per il momento ai negoziati, ma il loro atteggiamento è cambiato completamente da quando il presidente Donald Trump ha annunciato a giugno che abbandonerà l'accordo di Parigi. “La posizione degli Stati Uniti influenza gli altri Paesi sviluppati, che a loro volta hanno conseguenze per le posizioni adottate dalla maggioranza dei Paesi in via di sviluppo, e tutti si sorvegliano a vicenda” ha raccontato Seyni Nafo, un negoziatore degli Stati africani. La COP23 è servita anche a dimostrare che l'amministrazione Trump “vive in un universo parallelo con la sua ossessione per situazione obsolete come la promozione dei combustibili fossili”, ha detto Paula Caballero, portavoce per il cambiamento climatico presso il World Resources Institute (WRI).

L'invito di Macron

Intanto, tra meno di un mese a Parigi è in programma un ulteriore appuntamente voluto dal presidente francese Emmanuel Macron che ospiterà i leader di tutto il mondo per riaffermare l'impegno assunto due anni fa. Trump non è stato invitato.