Caso Brunson, Washington e Ankara ai ferri corti

Alta tensione fra Stati Uniti e Turchia, con la vicenda del pastore evangelico Andrew Brunson che rischia di trascinare i due Paesi in una disputa diplomatica internazionale. Il religioso, infatti, è detenuto da oltre un anno e mezzo ai domiciliari nel Paese eurasiatico, accusato di presunti legami con alcuni gruppi politici dissidenti e, visto il suo prolungato trattenimento, l'amministrazione americana ha deciso di imporre sanzioni contro due ministri di Ankara, quello della Giustizia, Abdulhamit Gul, e quello dell'Interno, Suleyman Soylu. I due ministri, come spiegato dalla portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, avrebbero giocato un ruolo chiave nell'arresto di padre Brunson.

Le sanzioni

Una decisione che non è piaciuta ad Ankara che, nell'immediato, ha invitato il governo statunitense a revocare le sanzioni a carico dei suoi ministri, minacciando “una risposta adeguata e senza indugi” qualora non si decidesse di avallare la richiesta e mettere fine a un atteggiamento che, dalla Turchia, considerano “aggressivo e senza senso”. Parole che sembrano non aver scalfito, almeno per ora, la posizione americana sulla questione: “Non abbiamo prove che il pastore Brunson abbia fatto qualcosa di sbagliato – ha detto Sarah Sanders -. Crediamo che sia vittima di una detenzione ingiusta e ingiusta”. Per questo, nonostante da Ankara abbiano precisato che quella degli Usa è “un'interferenza irrispettosa nel nostro sistema legale” che porterà danno agli “sforzi costruttivi per risolvere i problemi tra i due Paesi”, da Washington non sembrano intenzionati a fare marcia indietro.

La reazione

Le sanzioni in oggetto, come spiegato ancora da Sanders, riguardano in maggior modo le libertà economico-finanziarie dei due ministri in questione nel territorio Usa: “Qualsiasi proprietà o interesse in proprietà di entrambi i ministri all'interno della giurisdizione degli Stati Uniti è bloccato, e alle persone statunitensi è generalmente proibito di effettuare transazioni con loro”. Una frenata molto brusca, in un momento in cui le trattative per la liberazione di padre Brunson erano comunque in fase di discussione. Nei giorni scorsi, Erdogan aveva fatto sapere che la Turchia “non temeva” le sanzioni imposte da Trump, minacciando già allora atteggiamenti conseguenti in caso gli Usa avessero proseguito in quella direzione. E, mentre fra i due governi si consuma uno scontro a distanza, padre Brunson continua a restare agli arresti, divenuti domiciliari dopo quasi due anni di detenzione in carcere. Soltanto ieri, un Tribunale turco aveva respinto la richiesta di rilascio presentata dai legali.