“Altro che rischio, la Brexit è un'opportunità”

Rischio oppure opportunità? Non è facile inquadrare in una posizione definita (men che meno definitiva) il processo politico-economico che porterà alla separazione fra il Regno Unito e l'Unione europea. Dopo il flop a Salisburgo di Theresa May e qualche tensione politica Oltremanica la sensazione generale parla di una Brexit che, alla fine, si trasformerà in un pericoloso boomerang non solo per i Tories ma per la Gran Bretagna in generale. Eppure esiste un piano più elaborato, L'altra Brexit, come la definisce Bepi Pezzulli, direttore di Milano Select, nel titolo del suo libro (presentato lo scorso 15 ottobre presso Simmons & Simmons, a Milano) incentrato sul lato celato dell'operazione di separazione di Londra dall'Ue, fatto di importanti vantaggi economici e di strategie geopolitiche che, come avvenne durante l'Età vittoriana, vede nei mercati orientali uno degli antidoti a un'Europa sempre più orientata a una dimensione pangermanica. Un mondo “sommerso” dal quale emerge una terza linea nel dialogo turbolento fra Londra e Bruxelles.

Dott. Pezzulli, nel suo libro emerge chiaramente un parallelismo fra l’attuale politica britannica e quella che è stata la concezione dell’economia commerciale del vecchio Impero nell’800, con una netta espansione verso Oriente…
“Io lo chiamo l’Impero britannico 2.0. La tesi del libro è questa: in realtà, l’area di libero scambio, così come concepita nel XIX secolo, non serve più perché la contiguità geografica viene superata dalla digitalizzazione dell’economia. Poiché in questo momento l’Unione europea ha un’area di libero scambio estremamente penalizzante perché ha delle regole che sono quasi socialiste, per l’Inghilterra, poter recuperare un commercio internazionale con il Commonwealth, è molto più strategico. Anche perché l’Europa sta un po’ evolvendo in senso filo germanico, quindi c’è anche un elemento di geopolitica, ossia che fra l’America e la Germania esiste una guerra commerciale che è determinata dal surplus tedesco. Quindi è chiaro che un’Unione europea a trazione tedesca, che si pone in competizione diretta contro l’America va un po’ a urtare l’ideale atlantico di cui Londra è sempre stata il portabandiera. Al contrario, l’espansione a Oriente è nell’interesse strategico di tutti: c’è la Via della Seta cinese e la Vision 2030 di Mohammed Bin Salman in Arabia Saudita. Le due direttrici di sviluppo dell’Inghilterra del mondo post-Brexit (dell’Impero 2.0) sono, quindi, la finanza araba e quella cinese. Entrambe necessitano di una Gran Bretagna fuori dai vincoli europei che non consentirebbero il libero scambio fra i due blocchi”.

Il processo Brexit è stato valutato in altre sedi prima della consultazione pubblica. Ritiene che vi sia stato un tentativo di dialogo per aprire i mercati verso Oriente o la separazione sarebbe stata perseguita comunque?
“Né l’uno né l’altro. In realtà David Cameron, nel novembre 2015, era andato a Bruxelles per chiedere alcune modifiche alla governance euroepa. Ad esempio alle regole sulla libera circolazione dei lavoratori. Ma c’erano anche regole sul fatto che si ci fosse stata una crisi dell’euro, il Regno Unito, in quanto aderente alla sterlina, non avrebbe dovuto subire gli oneri di salvataggi o ristrutturazioni. Ad esempio, se c’è un default greco, Cameron chiedeva che questo restasse un problema della zona euro, senza che gli oneri toccassero anche al suo Paese. In realtà, incontrò un’opposizione feroce da parte della cancelliera Merkel. Tornato in Gran Bretagna ha offerto all’opinione pubblica una sconfitta, con Bruxelles che era inflessibile sulle norme relative alla governance economica e al libero commercio. Il referendum è nato nell’altra direzione”.

E se invece il tentativo di Cameron fosse andato a buon fine?
“Se Bruxelles avesse acconsentito alla formula 'Europa a due velocità', con un grado di integrazione affievolito per il Regno Unito, il referendum non si sarebbe fatto. L’ironia è che dopo la vittoria del 'leave' è arrivato il Piano Juncker, che di fatto ha questa formula. Per questo, secondo me, la Brexit era abbastanza inevitabile”.

Quali sono gli interessi tedeschi?
“C’è il Nordstream 2, il gasdotto che collega la Russia alla Germania. In questo momento i rapporti fra Mosca e Londra sono al minimo storico. L’interesse tedesco si inserisce qui è non è tanto compatibile con quello europeo”.

Parlando della strategia britannica, la bocciatura della linea May all’ultimo Congresso europeo ha evidenziato la possibilità concreta di una hard Brexit. Quanto e cosa rischierebbero le parti in gioco?
“Theresa May vuol fare la soft Brexit ma è un disastro, un controsenso anche economico perché mette il Regno Unito nella posizione di dover recepire il diritto comunitario senza poi poterlo influenzare. Il concetto è che Londra vuole essere libera di fare i trattati di libero commercio, bilaterali – cioè il trattato Inghilterra-Cina, Inghilterra-India, ecc. -. La soft Brexit disegnata da Theresa May è il peggiore dei due mondi, per cui ha incontrato l’opposizione dell’ala euroscettica del Partito conservatore. Ovviamente, l’ipotesi migliore sarebbe quella della hard Brexit, perché si recupera la sovranità, ossia l’indipendenza commerciale. Secondo me, quello che sui giornali non si legge, è la terza ipotesi, la blind Brexit”.

Ovvero?
“Si esce con un accordo sui principi in cui non si dice di fatto nulla, rimandando il problema a tempi un po’ più sereni. Secondo me, da un punto di vista della razionalità economica delle cose, potrebbe alla fine spuntare l’ipotesi Canada. Cioè, esiste il Ceta (Comprehensive economic and trade agreement, l'accordo di libero scambio Canada-Ue, ndr) e si potrebbe fare un “Ceta plus”, ossia un accordo in stile Canada, per cui il footprint già c’è, con in più una norma sui servizi finanziari. Il fatto che la Gran Bretagna perda il passaporto su tali servizi è solo metà della storia, l’altra metà dice che l’Europa perde l’accesso al pool di liquidità che esiste nella city di Londra. Quindi né l’uno né l’altro hanno interesse a perdere questo reciproco beneficio. I Paesi europei vendono debito pubblico, e lo comprano i fondi della city. Rompere sul passaporto dei servizi finanziari non è nell’interesse di nessuno. Poi qui c’è propaganda, un po’ di tattica e sui giornali europei emerge poco. Ma di fatto, la soluzione più plausibile è un accordo in stile Canada: un accordo di libero scambio con un elemento di libero scambio di servizi, per consentire a quelli finanziari di circolare liberamente all’interno del blocco europeo”.

Ed è un’ipotesi in piedi?
“Sì, lo è perché è stata presentata dallo European research group, l’ala euroscettica dei Tories, quella di Boris Johnson, di Jeremy Hunt, ecc. E’ una strada che trova poca copertura sui giornali europei ma è abbastanza realistica. Tra l’altro, sia Barnier che Tusk hanno confermato che a loro l’ipotesi Canada va benissimo”.

Quindi, a dispetto di quanto emerso sui rischi di un mancato accordo, ci sarebbe una pista concreta in questa direzione…
“I giornali italiani scommettevano nella disfatta di Trump che poi ha vinto, così come nel remain, che poi ha ceduto alla Brexit… Poi hanno insistito sull’idea di Trump zavorra per l’economia Usa che in realtà non è mai stata così forte. Le letture dei giornali non colgono la storia, perciò non mi sorprende che anche la Brexit venga trattata in modo così sensazionalistico, senza analisi. La realtà delle cose è che esiste un progetto strategico, quello dell’Impero britannico 2.0 col quale si può essere d’accordo o meno, però di fatto è questo. La Brexit è una grande opportunità e il modo migliore per coglierla potrebbe essere la hard Brexit qualora dovesse prevalere l’ala a destra del partito conservatore, oppure l’accordo Canada plus che sarebbe quello che tutelerebbe meglio le due parti”.

Dovesse prevalere questa soluzione (o quella della hard Brexit) l’economia britannica ne uscirebbe dunque rafforzata, contrariamente ai rischi palesati ad esempio sui danni al mercato del lavoro?
“I numeri non confermano queste ipotesi. La disoccupazione in Inghilterra è al 3,5%, il Pil cresce di 80 milioni di sterline a settimana. Alla fine l’economia funziona moltissimo, hanno fatto tagli fiscali, la deregulation, è estremamente competitiva, non si prendono più lavoratori a basso potenziale ma hanno la possibilità di scegliere un’immigrazione molto qualificata e ad alto valore aggiunto, possono riprendere i rapporti bilaterali con Cina, India, Stati Uniti e il resto del Commonwealth… Questo potenziale disastro economico francamente non lo vedo. D’altra parte il Regno Unito è un Paese che importa 3 milioni di macchine tedesche l’anno… Mi sembra abbia molto più un problema la Germania con la Brexit che non la Gran Bretagna. Potenza nucleare, secondo contribuente della Nato, membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la seconda economia del Continente”.

Dunque cosa cambierebbe con la Brexit?
“Le economie anglosassoni hanno una grande capacità di riforma, riescono ad abbracciare tecnologie trasformative. Quando c’è stata la rivoluzione di internet, tutte le start-up erano inglesi e americane. Adesso c’è il blockchain ma in alcuni Paesi. In Inghilterra e in Italia ad esempio non c’è. Non si può pensare che esista un paradigma economico fermo, scolpito nella roccia: queste sono economie e società che si trasformano, cambiano. Quindi hanno un margine di competitività enorme rispetto all’Ue, che è un blocco pachidermico e burocratico. Le Università britanniche sfornano Premi Nobel, sono competitive. Esistono una serie di cose nel Regno Unito che non scompaiono con la Brexit: la lingua inglese, l’amministrazione della giustizia, il livello professionale, l’industria della finanza. Nell’elenco dei fattori di competitività della Gran Bretagna, l’appartenenza all’Unione europea è l’ultimo. Sopra viene tutto il resto, dalla flessibilità alla meritocrazia alla stabilità politica e, non ultima, la piena sovranità monetaria. Questi vantaggi si rafforzano perché l’economia britannica diventa meno correlata al rischio euro. Un’eventuale seconda crisi greca non contagerebbe il Regno Unito. Io la vedo come una mossa di grande intelligenza economica”.

L’apertura ai mercati orientali potrebbe essere un esempio seguito dall’Ue o è più forte il rischio di emulazione singola da parte di altri Paesi?
“Il grande rischio è quello. I Paesi vedono il grande successo della Brexit, e ce ne sono alcuni come i Paesi Bassi o la Danimarca, che non sono mai stati fervidi eurolirici. Questo mette un po’ in risalto alcuni dei limiti strutturali della Costituzione europea. Il fatto che c’è una burocrazia non eletta, una certa mancanza di competitività… Tutto questo con la Brexit è ancora più evidente. Quindi è chiaro che è una minaccia al successo dell’Unione europea la quale, d’altra parte, ha necessita di riforme per rimanere competitiva”.