Ahmadreza Djalali, il ricercatore detenuto in Iran che rischia la pena di morte

Arriva dall’Italia l’ennesimo appello per ottenere la liberazione di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano di 45 anni esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria, detenuto nel suo Paese con l’accusa di “spionaggio” e che rischia la pena di morte. A farsi portavoce del dramma vissuto dal collega è Luca Ragazzoni, ricercatore del Crimedim dell’università del Piemonte Orientale che dal 2012 ha lavorato insieme a lui.

Per protesta, Djalali ha iniziato uno sciopero della fame (ripreso lo scorso 24 febbraio) e ha dichiarato di aver smesso di assumere anche i liquidi. Sta protestando per la sua detenzione e il rifiuto delle autorità di garantirgli accesso ad un avvocato di sua scelta. Ora Ragazzoni chiede che la comunità scientifica e l’Unione europea si mobilitino per mettere sotto pressione Teheran.

“Stiamo cercando – ha spiegato all’Adnkronos – di attivare la comunità scientifica mondiale, di chiamarla a raccolta contro questa detenzione, ad esempio respingendo gli inviti a partecipare a eventi scientifici in Iran”, come ha fatto di recente la senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo. Una mobilitazione che si aggiunge all’interessamento al caso da parte della Farnesina e dell’Unione europea, nella persona dell’Alto commissariato per gli affari esteri Federica Mogherini. “Non sappiamo esattamente cosa stiano facendo. Chiediamo di avere rassicurazioni sullo stato di salute di Ahmadreza e conferme ufficiale dell’impegno e dei risultati che stanno ottenendo”.

Dopo 11 mesi di alti e bassi, la sensazione è che “Di passi avanti concreti non ce ne sono stati. Ahmadreza continua a fare lo sciopero della fame iniziato a fine febbraio e questo dal punto di vista della salute è drammatico”. Al collega detenuto nella prigione di Evin, Ragazzoni ha fatto un appello: “Gli chiedo di smettere lo sciopero della fame perché siamo sicuri di salvarlo. Come amici e colleghi stiamo facendo un grandissimo lavoro per riportarlo a casa e deve avere fiducia. Non è solo: ha la famiglia, gli amici e il mondo scientifico dalla sua parte”.

Il 45enne ricercatore che dopo il lavoro in Italia si è trasferito con la sua famiglia in Svezia era stato invitato ad aprile scorso dall’Università di Teheran per un ciclo di conferenze, ma dal 25 aprile la sua vita prosegue dietro le sbarre “e rischia la pena di morte, se venisse accertato lo spionaggio. Per questo – ha sottolineato Ragazzoni – chiamiamo che il suo caso venga rivisto e che abbia un processo regolare”.