Accuse di spionaggio, la difesa del Ceo Zhengfei

Non parlava da un po' di tempo Ren Zhengfei, leader, fondatore e Ceo del colosso cinese della telefonia, Huawei. L'ultima volta che aveva tenuto una conferenza era il 2015, ed era stata appena la seconda volta. E non aveva parlato nemmeno in occasione dello scandalo che aveva investito sua figlia Meng Wanzhou, arrestata lo scorso dicembre in Canada nell'ambito di un'inchiesta americana su possibili violazioni delle sanzioni imposte all'Iran. Stavolta, però, Zhengferi ha deciso di sciogliere le riserve e intervenire sul complicato momento della sua società: perché non c'è stato solo il caso Meng ma anche i sospetti nei confronti della società cinese su un possibile utilizzo dei suoi canali da parte del governo di Pechino per azioni di spionaggio. Un'accusa che ha portato a un'azione da parte dell'Intelligence polacca che, nei giorni scorsi, ha arrestato un dirigente della società. Huawei ne ha preso le distanze immediatamente ma la risonanza della vicenda ha spinto il Ceo a intervenire e fare chiarezza: “Amo il mio Paese, supporto il Partito. Ma personalmente non danneggerei mai gli interessi dei clienti, io e la mia società non risponderemmo a richieste di questo tipo”.

Ottawa-Pechino, rapporti logori

Nessun accenno, però, al caso Meng. Anzi, per il presidente Trump Ren Zhengfei ha parole di apprezzamento, definendolo un “grande presidente che vuole abbassare le tasse per aiutare il business”. Per quanto riguarda le accuse di complicità nelle mire tecnologiche di Pechino, il Ceo Huawei si chiama fuori: “Non ci sono backdoor nelle nostre forniture tecnologiche… Non ho mai fatto nè mai farò alcunché per danneggiare un altro Paese nel mondo”. Di sua figlia ne parla solo in modo “paterno”, senza fare menzione della vicenda di dicembre: Meng gli “manca molto” ma sui sospetti avanzati dagli Usa non si sbilancia. Su di lei, che ora è ai domiciliari, pende una richiesta di estradizione americana. Una mossa, quella di Zhengfei, che probabilmente si inserisce nell'ambito di una distensione nei rapporti con Washington ma che, allo stesso tempo, inasprisce il confronto di Pechino con il governo canadese, già deteriorati dalla disputa sull'applicazione della giustizia, accusa rimpallata da Ottawa alla Cina su casi specifici di cittadini canadesi e cinesi detenuti nei due Paesi. Particolare agitazione sul caso di Robert Lloyd Schellenber, condannato a morte in Cina per traffico di droga.