“Tiro libero”: il film che non piace ai “talebani del cinema d’autore”

Nella pallacanestro il tiro libero è una sorta di rigore. Un’occasione di riscatto che viene concessa al giocatore dopo aver subito un fallo dagli avversari. E siccome lo sport è anche una metafora della vita, di “tiri liberi” il destino ce ne concede di continuo: sono le opportunità di trasformare una flessione, anche molto brusca, in una spinta per risalire.

Ne sa qualcosa Dario, il protagonista di un film intitolato appunto “Tiro Libero”. Nelle sale dal 21 settembre, è la storia di un venticinquenne campione della pallacanestro, che vive di eccessi e di superbia, fin quando la vita non lo fa scontrare con un dramma. Durante una partita cade a terra e perde i sensi. Dagli accertamenti emerge che è affetto da distrofia muscolare: la sua carriera sportiva finisce, e rischia di rimanere incollato su una sedia a rotelle.

Come piovesse sul bagnato, Dario è inoltre indagato per aver investito con l’auto una ragazza in motorino. Per evitare il carcere, accetta tre mesi di lavoro in una struttura salesiana per disabili. Quella che il giovane vive inizialmente come una condanna, si rivela col tempo la sua svolta di vita. Dario intraprende un processo di maturazione, sostenuto dalla relazione con una ragazza e da un graduale avvicinamento alla fede.

Il protagonista è interpretato da Simone Riccioni, affiancato da Nancy Brilli e Antonio Catania nei panni dei genitori. In Terris ha parlato di questa “favola contemporanea” con il regista Alessandro Valori.

È corretto parlare di “una favola contemporanea”?
Sì, perché si tratta di una bella storia, di una sfida, di un cambiamento radicale della vita del protagonista. È un film che vuole intrattenere, ma che al tempo stesso, sebbene in maniera leggera, intende attirare l’attenzione su temi sociali quali l’integrazione, la disabilità. L’obiettivo che ci siamo posti con Simone Riccioni (che è anche produttore del film, ndr) è di coniugare l’aspetto dell’intrattenimento con i valori.

Quando si affrontano temi etici, c’è sempre il rischio di scivolare in una sorta di retorica edulcorata. È una riflessione che avete affrontato?
Per non correre questo rischio bisogna essere autentici e saper usare le armi della leggerezza e dell’autoironia. Questo ce lo insegnano i ragazzi che hanno partecipato al film, i componenti della squadra giovanile di disabili di cui il protagonista diventa allenatore. Sono giovani come gli altri, non vogliono essere visti in maniera pietistica. Sebbene soffrano della loro condizione, come è normale che sia, sono i primi a scherzarci su. Poi certo, ci sono momenti del film che possono far scendere una lacrima. Ma si tratta di emozioni trasmesse in modo autentico, come autentico è l’amore per la vita che questi ragazzi esprimono.

C’è anche un percorso di fede nella vita del protagonista…
Dario, non appena subisce questo grave infortunio, cade nello sconforto e si lascia sopraffare dalla rabbia nei confronti di Dio. Da questo atteggiamento nasce però un dialogo, una ricerca di risposte che la vita che aveva condotto fino a quel momento, all’insegna di edonismo e superficialità, non era in grado di offrirgli. Ed è proprio grazie all’esempio di Gesù che lui decide di accettare questa nuova sfida, in cui la vittoria non consiste nel successo ma nel donarsi agli altri per diventare migliore.

Volto di Gesù che riconosce nel volto di questi ragazzini disabili?
Esatto. E questi giovani (componenti reali della squadra di basket in carrozzina Amicuccioli di Giulianova, ndr) rappresentano per lui anche un modello di vita: ogni giorno cadono e si rialzano per raggiungere la felicità.

Il cambiamento che attraversa l’animo di Dario può rappresentare un esempio per i divi dello sport?
È un esempio per tutti. Nel momento del successo a ognuno di noi capita di essere sbruffone e sentirsi immortale. Certo, il film offre uno spaccato sulle due facce dello sport: emerge da un lato l’idolatria che aleggia intorno ai divi e dall’altro il valore autentico dell’aggregazione, che aiuta in special modo ragazzi che più ne hanno bisogno.

Che riscontri sta avendo il film presso la critica?
È stato ferocemente attaccato da quelli che definisco “i talebani del cinema d’autore”, ma non tanto sotto l’aspetto tecnico, quanto perché è un film che è stato definito banale e smielato in quanto racconta valori semplici come l’amicizia e la solidarietà, senza troppe elucubrazioni. Critiche anche perché si parla dell’aspetto della fede in Dio, della speranza, del darsi agli altri. Questi attacchi dimostrano che certi valori positivi sono oggi bistrattati. E forse è da questo clima culturale che si genera la violenza ormai dilagante tra i nostri giovani.