Quando la tv era antidoto al razzismo

La famiglia di un uomo resta la famiglia di tutti. Sono trascorsi quattro decenni da una pietra miliare della televisione a livello internazionale: la realizzazione di Radici, Le nuove generazioni, la gloriosa  miniserie televisiva realizzata negli Stati Uniti nel 1979, come sequel di Radici (1977) e creata da Marlo Brando. Quando la tv aveva ancora una funzione formativa e non solo di intrattenimento o di promozione commerciale, venivano realizzati questi progetti di elevatissimo valore sociale e artistico, premiati con una pioggia di Emmy Award,  Golden Globe e Peabody Award.  

Carica emotiva

Un capolavoro senza tempo, sempre tra i dvd più venduti da Amazon: non ha perso neanche un po' della sua carica drammatica ed emotiva e della sua capacità di spingere i telespettatori ad esaminare la storia e loro stessi. Un’opera collettiva che quarant’anni fa incollava sul network Abc 80 milioni di americani. “L’Italia non fu da meno, in 11 milioni su Raiuno a seguire le vicende della saga tratta dal best seller di Alex Haley dove venivano ripercorsi dal 1750 duecento anni di una famiglia africana e del suo capostipite Kunta Kinte, strappata dal villaggio d’origine in Zambia per essere ridotta in schiavitù nelle piantagioni della Virginia”, rievoca il Manifesto.  Il sequel è andato in onda quattro decenni fa perché, sull’onda del clamoroso successo, la Abc ne commissionò una seconda serie altrettanto popolare e con un cast stellare che annoverava fra gli altri Henry Fonda e Marlon Brando. Realismo, dialoghi serrati, ricostruzione storica dettagliata. Tutto il contrario delle soap lacrimose.

I ricordi del primo Kunta Kinte

“Sono passati quarant’anni – sottolinea LeVar Burton, primo Kunta Kinte – e noi abbiamo avuto la possibilità di sfruttare delle borse di studio che non erano disponibili nella prima serie quando Haley ha fatto le ricerche. Allora si era immaginato che il villaggio d’origine di Kunta Kinte fosse molto piccolo, in realtà era un importantissimo centro commerciale, c’erano gli olandesi e sappiamo anche che la famiglia mandingo utilizzava cavalli”. L’esperienza e la sofferenza di Kinte per comprendere il suo valore. Anche nelle scene più difficili: la rivolta sulla nave o la scena delle frustate. I temi di Radici, sottolinea Burton “sono universali” e attuali perché ancora oggi parliamo di schiavitù. E non necessariamente sono ceppi o catene, ma muri e recinzioni o gente gettata in mare proprio come succedeva tre secoli orsono”. Infatti “la schiavitù non è stata sradicata. Si è solo adattata ai tempi. È una delle ragioni per cui è utile ripercorrere la vicenda scritta da Haley”. La schiavitù in qualche modo era una emigrazione forzata verso l’America, oggi come allora, e quando queste masse di popolazione si spostano a quel punto l’umanità ha una reazione di chiusura, ha paura dell’altro a prescindere da chi sia. Tempo pesante negli Stati uniti, gli scontri razziali nei ghetti, i ripetuti omicidi della polizia e in una forma diversa, le polemiche degli attori neri contro l’Academy.

Le ragioni di un successo senza tempo

Kunta Kinte è riuscito a catturare l’attenzione mondiale grazie al racconto di Alex Haley, suo discendente diretto da parte di madre e scrittore originario di Ithaca. “La sua storia è il perno infatti di Roots –Radici, il remake della prima miniserie realizzata dalla televisione americana e ispirato al romanzo omonimo di Haley- sottolinea il Sussidiario-. Una storia importante che nel corso degli anni è diventata simbolo di emancipazione degli schiavi d’America”.  La storia di Kunta Kinte, dettagliata nel romanzo di Alex Haley e nella miniserie omonima Roots – Radici, inizia in Gambia nel 1750. “L’infanzia del protagonista è descritta come severa e austera, dovuta alla nascita di Kunta Kinte nella famiglia di un guerriero- puntualizza il Sussidiario-. La sua vita diventa inoltre ancora più difficile quando a soli 17 anni viene aggredito e trasformato in schiavo, per poi essere deportato fino in Virginia”. In realtà la schiavitù di Kunta Kinte inizia fin da bambino, sottolinea Vanity Fair, dato che il primo a mettere le catene ai polsi del figlio sarà proprio il guerriero Mandinka che gli ha dato i natali. Le imposizioni sono molte, dal non poter corteggiare una ragazza che non appartiene allo stesso rango della sua famiglia fino al divieto di studiare. Sarà però l’incontro con i Waller, i suoi primi padroni, a mettere a dura prova l’identità del protagonista, che sarà costretto a cambiare il suo nome in Toby.

Schiavitù veramente abolita?

“In quel momento il suo animo ribelle si fa sentire, tanto da spingerlo verso la fuga – ricostruisce il Sussidiario -. Una volta catturato, dovrà però sottostare alle regole dei Waller. Al suo fianco un altro schiavo anziano, il violinista che deciderà di prenderlo sotto la propria ala e che in qualche modo lo aiuterà a fare i conti con quella realtà alienante legata allo stato di schiavitù”. Nonostante tutto, Kunta Kinte riuscirà negli anni successivi ad avere figli e nipoti, che porteranno avanti la sua battaglia contro le catene di qualsiasi tipo: i discendenti riusciranno infatti a mettere la parola fine alle lotte quando gli Stati Uniti aboliranno la schiavitù nel 1865.