Leonardo e quei 500 anni di contese Italia-Francia

Una guerra da operetta”. Così lo stimabile giornale francese d'arte La Tribune de l'Art aveva definito a settembre la débacle sull'Uomo Vitruviano, il disegno di Leonardo Da Vinci conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia che, secondo il Tar del Veneto, potrà essere accolto nel Museo del Louvre. Ma spesso, come accade nelle operette, le tenzoni cortesi possono diventare questioni politiche, e questo è accaduto al celebre disegno, strattonato fra ricorsi e sentenze come carta straccia. Un foglio delle dimensioni di 34×24 cm ha superato qualsiasi utopia leonardiana, diventando pesante come un macigno diplomatico e giuridico. La vicenda risale al 24 settembre scorso quando, a un mese dalla mostra parigina su Leonardo, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e il suo omologo Franck Riester firmano un memorandum: l'opera leonardiana a Parigi quest'anno, Raffaello in Italia l'anno prossimo. Il direttore delle Gallerie dell'Accademia, Giulio Manieri Elia, è d'accordo. Lo è meno Italia Nostra, l'Associazione Nazionale per la Tutela del Patrimonio Storico, Artistico e Naturale della Nazione, che presenta ricorso presso il tribunale amministrativo regionale: e così, il disegno simbolo dell'umanesimo viene fermato sulla soglia della porta dal Tar. Ma il veto dura poco, perché lo stesso tribunale decide che “il prestito s'ha da fare”: le criticità sui rischi di movimentazione del foglio, avanzate dall'Associazione, possono considerarsi “risolvibili con precise cautele”. Ma c'è di più: sul piano simbolico, “il disegno non ha un carattere identitario rispetto alla città di Venezia, ma pertinenziale”, essendo stato acquistato nel 1822 dal collezionista Giuseppe Bossi. A poche ore dalla mostra al Museo del Louve, al caso si stanno affiancando le trattative relative al costosissimo Salvator MundiEppure, perché su 162 – forse 163 – opere in mostra, suscitano clamore mediatico soltanto due? L'affaire dell'Uomo Vitruviano ha un così grande peso politico? In Terris lo ha chiesto a due autorevoli esperti: Salvatore Settis, archeologo, storico dell'arte e già direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, e Tomaso Montanari, storico dell’arte e membro del Comitato scientifico delle Gallerie degli Uffizi

Secondo la difesa presentata dalle Gallerie dell'Accademia dopo il ricorso al Tar di Italia Nostra, l'Uomo Vitruviano non ha carattere “identitario”, semmai “pertinenziale”. Siete d'accordo?
SETTIS: 
“Oggi la parola identità è scivolosa, visto che se ne fa un uso improprio e perverso, come nel caso del respingimento dei migranti in nome della nostra identità, per cui sarebbe meglio non usare tali termini per un certo periodo. Quando si parla di prestiti di opere d'arte, si tende a concentrarsi sulle opere più famose. In questo momento, però, in Italia ci sono centinaia di opere in prestito, però si parla di una o due. Questo è un fatto estremamente negativo: se si ammette che alcune cose hanno un valore identitario, ciò equivale a dire che tutte le altre, in realtà, non contano tanto, quindi la distinzione contiene un principio di per sè negativo. Bisogna, invece, difendere la qualità delle opere d'arte, a prescindere dal fatto che siano più o meno note, celebrate, mediatizzate, rese iconiche”.
MONTANARI: “La sentenza del Tar mi ha lasciato sconcertato e credo sia piena di grossi errori culturali. C'è un fraintednimento grave dell'articolo 66 del Codice dei Beni Culturali – che a sua volta deriva dalla Legge 328 del 1950. In queste leggi non c'è mai la menzione della parola identità identitario. Le leggi non parlano d'identità, ma di fondo principale di un museo. Ciò significa che il legislatore ha pensato che in ogni museo italiano ci sia una riserva di opere particolarmente importanti: si tratta di opere così preziose da tutelarle ancora di più. Il principio, se vuole, è quello del vincolo: tutte le opere d'arte sono inalienabili e protette, ma ci sono alcune particolarmente protette. In questi casi, la protezione consiste nel non farle uscire dal territorio della Repubblica”.

In linea di principio, quali dovrebbero essere le regole per i prestiti internazionali delle opere d'arte?
SETTIS: “Se la mostra comporta un forte acquisto di conoscenza, si potrebbero concedere dei prestiti sempre verificando, caso per caso, che gli oggetti siano abbastanza mobili, riducendo così i rischi. Penso, tuttavia, che si facciano troppe mostre, alcune pretestuose, che obbligano le opere d'arte a viaggi rischiosi: non parlo solo di incidenti, ma anche delle vibrazioni a cui sono assoggettate. Per fare un esempio, generalmente i dipinti su tavola corrono più rischi dei dipinti su tela. Salvo casi rarissimi, sarebbe meglio che le tavole non si spostassero mai rispetto alle tele”.
MONTANARI: “Quando le opere d'arte escono dal territorio italiano, sono sottoposte all'autorità, al potere giudiziario, esecutivo, ai governi e alla polizia dei Paesi ospitanti. Se, per esempio, domani al Louvre ci fosse un incendio, le modalità di un intervento della gendarmerie spetterebbero al governo francese, non italiano. Quando le opere escono dall'Italia – con una procedura, ricordiamolo, molto formalizzata – il governo italiano perde il controllo di tutte le opere. Si ritiene che per alcune opere preziose non debba accadere. Il fatto che l'Accademia di Venezia abbia voluto autospogliarsi, dichiarare che l'Uomo Vitruviano, il disegno più famoso del mondo, non fa parte delle opere più importanti dell'Accademia è ridicolo, grottesco, un falso: la classica cosa da azzeccagarbugli”.

Vietare il prestito di un'opera non rischia di creare un'arte “nazionalista”?
SETTIS: “Considerati i rischi per lo spostamento di alcune opere, va fatta una distinzione tra le mostre che si fanno per fare cassa e le mostre che comportano un acquisto di conoscenza per il pubblico di studiosi, per il grande pubblico o – sarebbe l'ideale – per entrambi. Secondo me, va comunque esclusa, in linea di principio, l'idea del prestito per ragioni meramente economiche: non si può concedere qualcosa in prestito o in cambio di un assegno di x euro: vengono prima la cultura e la conservazione delle opere”.
MONTANARI: “No. In questo caso, si tratta di una mostra politica, che nasce da un incontro fra Macron e Mattarella e finisce con un memorandum firmato da Franceschini e dal suo omologo francese. Il giornale d'arte più autorevole di Francia, La Tribune de l'Art, ha definito quest'accordo 'ridicolo', perché demandava a dei ministri quello che dovrebbe essere dei musei e della comunità scientifica. È il caso dell'invadenza della politica e del fatto che la comunità scientifica venga spogliata della sua autonomia. Ricordo che Dario Franceschini era ministro dei Beni Culturali del governo di Matteo Renzi, il quale aveva detto che sovrintendente è una delle parole più brutte del vocabolario. La riforma Franceschini è il tentativo, purtroppo in parte riuscito, di dare corso a quell'idea che mette nell'angolo i saperi tecnici del ministero. D'altra parte, la riforma di musei ha istituito dei super-musei autonomi il cui direttore è nominato dal ministro, che poi deve confermarlo. Come fa il direttore degli Uffizi a dire di no a Franceschini, che lo deve riconfermare?”.

A proposito di strumentalizzazioni, cosa pensate al riguardo di alcuni recenti episodi di restituzioni, come il sarcofago di Nedkemankh all'Egitto da parte del Metropolitan Museum di New York?
SETTIS: 
“C'è una regola che andrebbe seguita, vale a dire l'accordo fatto oltre quarant'anni fa sotto l'egida dell'Unesco contro l'esportazione delle opere d'arte. Tutto quello che è stato spostato illecitamente da quel momento in poi, a mio avviso andrebbe restituito. Tutto quello che, invece, è stato esportato prima non va restituito perché si è 'storicizzato' nel luogo in cui è. Il caso più famoso sono i marmi del Partenone: io sono contrario alla restituzione e continuo a non capire come mai Atene chieda i marmi del Partenone, ma non chieda le migliaia di oggetti di arte greca disseminati nel British Museum. È come dire che quei marmi sono identitari e la Cariatide dell'Eretteo e le sculture se le possono tenere. Questo vuol dire creare opere d'arte di prima fascia e di seconda fascia: non ci sono opere d'arte nobili o plebee, ma va preservato l'insieme”.
MONTANARI: “Certo, sono d'accordo che c'è il rischio. Per questo, le restituzioni andrebbero decise su basi scientifiche ed essere leggibili in una politica coerente. Non ha senso, cioè, pensare a una politica di restituzioni perché ogni storia è un caso a sé sotto vari punti di vista. Da un certo punto di vista, però, se i marmi del Partenone tornassero ad Atene sarei più contento. D'altra parte, va detto che la storia non si cancella. Ha ragione Settis: il rischio è che s'inneschi un meccanismo folle in cui dobbiamo passare i prossimi duecento anni a spostare opere d'arte. Però è anche vero che esistono delle opere dal forte valore simbolico. Il caso del Partenone è delicato e sarebbe un precedente bizzarro. D'altra parte è, però, vero che quello che è stato fatto alla Grecia è politicamente molto grave e l'idea che ci sia un risarcimento, una restituzione non sarebbe sbagliato”.

Secondo voi, si sta perdendo il ruolo pubblico dell'arte?
SETTIS: 
“Credo che i cittadini non siano lontani, semmai vorrebbero essere più vicini. Sono, invece, gli addetti ai lavori, i miei colleghi, siamo noi professori ed esperti d'arte a non essere abbastanza bravi a rispondere al desiderio di conoscenza da parte delle persone in una maniera che sia attraente: innanzitutto, senza mettere a rischio opere preziose, poi evitando di creare opere di prima o di seconda fascia”.
MONTANARI: “Premetto che chi fa il nostro mestiere e ha una voce pubblica dovrebbe andare contro lo spirito del tempo, anziché cavalcarlo. Piuttosto che fare le mostre, bisognerebbe occuparsi del patrimonio diffuso, di tutto ciò che non è spostabile, dei rapporti degli italiani col contesto. Peraltro, chiunque faccia mostre si trova necessariamente a dipendere dalla politica e questo porta ad avere un giudizio più morbido sulla politica. Chi fa grandi mostre in questo momento, per esempio, finisce con l'essere molto tenero con il ministro Franceschini. Sulla questione sollevata da Settis, e cioè il rischio di mostre nel generare una casistica fra 'opere di prima e di seconda fascia', non sono d'accordo Prendiamo proprio il caso dell'Uomo Vitruviano: è un caso straordinario non per l'opera in sé, ma per i meccanismi che essa svela per tutte le altre. Va poi detto che la politica muove sempre quei dieci autori celeberrimi, perché i nostri politici sono analfabeti”.

Secondo voi, l'accesso ai musei dovrebbe essere gratuito?
SETTIS: 
“Sì, non si dovrebbe pagare nulla come si fa nel Regno Unito. Per un certo periodo, il Victoria and Albert Museum di Londra ha messo un ingresso a pagamento. C'è stata una tale levata di scudi da parte dell'opinione pubblica inglese, che dopo un anno o due hanno dovuto rinunciare al ticket a pagamento. L'interesse da parte del pubblico c'è e crescerebbe ancora di più se le persone non pagassero neanche un centesimo. Va detto che l'economia inglese non è tanto più florida della nostra e il nuovo governo non potrebbe contestare una spesa esorbitante: ci è stato appena detto, per bocca del presidente del Consiglio, che ci sono circa 130 miliardi di tasse evase ogni anno. Basta recuperare l'evasione e i soldi per far entrare la gente nei musei ci sono tutti, come quelli per avere migliori scuole, università, una sanità migliore. Per vivere meglio, insomma, basta far pagare le tasse. Oggi c'è gente, soprattutto le famiglie, che andrebbero volentieri in un museo, ma non ci vanno perché la somma di 4, 5 biglietti, non è sempre sostenibile. Una vera politica di accessibilità dell'arte in Italia non siamo mai riusciti a farla. Sarebbe anche ora”.
MONTANARI: “Come ho già scritto, per rendere visitabili gratuitamente tutti i musei d'Italia basterebbe sospendere la spesa militare per due giorni. Se a Pasqua e Natale non investissimo in armi, per esempio, potremmo dare gratis tutti i musei statali. Però, stiamo andando in direzioni opposta, seguendo un'ottica meramente aziendalistica: il rischio di quest'approccio è che trasforma i cittadini in clienti e consumatori del patrimonio culturale, mentre dovrebbero essere educati ad essere cittadini liberi”.