Galatea Ranzi: “Il teatro come antidoto alle maschere”

La storia di Galatea Ranzi e quella del teatro si intrecciano in modo quasi indissolubile: diplomata all'Accademia d'Arte drammatica “Silvio D'Amico” nel 1988, la sua carriera si è snodata quasi interamente sul palcoscenico teatrale, partecipando a importanti produzioni del Piccolo Teatro di Milano e ottenendo, nel 2012, l'importante riconoscimento del Premio Eleonora Duse. Ma racchiudere il tutto in singole esperienze non renderebbe giustizia alla vastità dell'esperienza attoriale, traslata dalle assi del palcoscenico agli schermi del cinema attraverso lo stesso principio di fondo: conoscere se stessi indossando la maschera di qualcun'altro. La carriera di Galatea Ranzi (in scena al Festival di Todi con lo spettacolo Lezione da Sarah) passa anche dal grande schermo, ricoprendo una parte di rilievo anche nel film Premio Oscar La grande bellezza. Ed è attraverso esperienze di questo tipo che, come racconta a In Terris, si stabilisce il contatto più importante con la realtà delle cose. Perché è “il raccontare attraverso una maschera a far sì che vengano meno le maschere della quotidianità”.

 

Galatea Ranzi, Lezione da Sarah è uno spettacolo del tutto particolare, quasi una formazione teatrale in presa diretta, che trasforma la scena in una scuola di arte e di vita…
“Esattamente. Ci sono anche dei brani famosi recitati e quindi, c'è proprio il teatro nel suo farsi: si parla molto di cos'è il teatro, del suo senso, significato, del lavoro dell'attore… Credo sia un 'dietro le quinte' che mi sembra adattissimo a un festival che ormai da tanti anni celebra il teatro sia a un pubblico che lo ama”. 

Può essere definito anche un modo di parlare del teatro in un momento storico in cui le forme di comunicazione sono tante e, spesso, lontane da un contatto diretto?
“Io la chiamo un'ode al teatro. E' vero che ci sono tanti altri mezzi e forme di espressione ma il nostro intento è anche quello di dare una bella iniezione di energia al teatro in sè per sè. Un teatro che è messo un po' in difficoltà, si fa sempre fatica a portarlo avanti ma è invece la cosa più importante, più emozionante perché è dal vivo. Siamo abituati a stare dietro gli schermi quasi sempre e invece fa la differenza avere qualcuno in carne e ossa di fronte che ti comunica un fatto artistico. E' proprio un modo di fare entrare il pubblico a contatto con questo mestiere e anche con il mestiere dello spettatore”.

Ovvero?
“Nel senso che il pubblico è molto chiamato in causa in questo spettacolo. Si parla molto di cosa significa essere pubblico, della sua partecipazione alla rappresentazione. E' un elemento fondamentale: senza il pubblico davanti non si fa il teatro”.

L'interazione del pubblico, mai come oggi, tende ad avvenire in modo indiretto. Ritiene che questo sia un modo di mettere alla prova il pubblico moderno e aiutarlo riscoprire un gusto della partecipazione che si è forse un po' perso?
“Sì, è dargli un'opportunità. Anche perché il teatro presuppone una fruizione collettiva. A parte quegli esperimenti dove lo spettatore è singolo ma quelli sono fatti appunto sperimentali e delle eccezioni che confermano la regola, ossia quella che nel teatro c'è un pubblico che è un elemento costituito da tanti singoli che si aggregano e scelgono di andare a vedere qualcosa. Il cinema invece, così come le serie, uno se le vede per conto proprio e, anche se lo fa in gruppo, si tratta di tutt'altra cosa. Il teatro invece è ancora così e fa la differenza, nel senso che il pubblico e la sua partecipazione attiva sono un elemento per nulla secondario”.

Un mestiere, quello dell'attore, che lei ha affrontato anche nel mondo del cinema: esiste un tratto comune fra queste due esperienze attoriali?
“Sì ma, parlando da attore, sono quasi più le differenze. L'elemento comune è la costruzione di un personaggio, quello lo devi fare sia se fai uno spettacolo che se giri un film. Però poi a teatro c'è la continuità mentre al cinema è tutto spezzato. L'elemento in comune è questo: costruire un personaggio che, dalla carta, diventa vivo”.

Pensando alla sua partecipazione a La grande bellezza, viene in mente il personaggio da lei interpretato: Stefania compie un percorso estremamente significativo, dalla costruzione della maschera fino alla redenzione data dalla consapevolezza di aver costruito un'immagine altra di sé. La costruzione della maschera diventa il fulcro dell'esperienza attoriale che si trasferisce anche sul piano dell'esistenza, perché propria dell'uomo contemporaneo. Qualcosa che, forse, il teatro ha il compito di far venire meno… 
“E' vero e lo diceva anche Pirandello che tutti abbiamo una maschera. Il teatro è fatto appunto per toglierla. Attraverso la maschera che c'è in scena lo spettatore viene denudato, in pubblico, perché fa parte di una platea, ma anche in maniera molto privata, personale, perché non ti rivolgi a uno spettatore singolo ma a tutti. Quindi ognuno, per sé, fa un percorso interiore vedendo un personaggio o una vicenda che gli dice qualcosa o che gli ricorda qualcosa di sé o di qualcuno che conosce. C'è qui la funzione e il gioco del teatro: il raccontare attraverso una maschera e far sì che le maschere della realtà vengano abbassate”.

Nell'esperienza del teatro possono incidere elementi come la fede?
“Più che la parola fede o religione userei la parola spiritualità. E credo che questa, al di là delle religioni, sia qualcosa di imprescindibile e di molto umano. E' un elemento non eliminabile dall'essere umano. Il teatro, che è fatto di niente, è l'arte più effimera, un po' come la musica, anche se questa è scritta mentre la recitazione si può registrare ma verrebbe meno l'aspetto fisico. Il teatro quindi, come arte più effimera, è in qualche modo anche quella più spirituale. Un attore ha spesso la percezione della spiritualità proprio perché andiamo costruendo degli esseri che in realtà non esistono ma che poi si incarnano attraverso la messa a disposizione della nostra sensibilità, della nostra voce, del nostro corpo. E' un discorso molto complesso ma estremamente profondo. A parer mio questo elemento della spiritualità è molto presente nel teatro”.

Possiamo dire che, per come è stato costruito, Lezione da Sarah è uno spettacolo che apre ai giovani le porte del teatro e del suo aspetto più intimo, quello del primo approccio?
“Io dico sempre che il teatro è un mezzo molto importante per conoscere se stessi, per riconoscere le emozioni che ci abitano, per dar loro un nome, per sperimentarle facendo finta di provarle, capire esattamente come agiscono. All'estero si fa teatro nelle scuole primarie, è una materia quasi quotidiana. Noi non lo facciamo ed è un gran peccato, perché attraverso l'esperienza teatrale, da attore ma anche a livello scolastico, come esercizio, è qualcosa che sicuramente ti resta dentro, ti fa acquisire strumenti per capire te stesso e gli altri. E anche, poi, per diventare un bravo spettatore. L'altra cosa che penso spesso è che ci sono tantissimi ragazzi che vogliono fare gli attori: sta diventando, ormai da anni, un mestiere molto ambito. E questo, forse, proprio perché c'è una sete di conoscersi, qualcosa che durante gli anni della formazione scolastica forse non viene tanto aiutata. Credere che il mestiere dell'attore sia facile, pensare che basti poco per arrivare al successo, è qualcosa che è dato fin troppo spesso per possibile da molte trasmissioni. Invece non è assolutamente così: per fare questo mestiere e non essere una semplice cometa, restando poi delusi, ci vuole una grandissima preparazione, tanta dedizione e, naturalmente, talento e vocazione. E questo nello spettacolo lo raccontiamo”.