Al Palazzo Ducale di Massa gli scatti artistici di Francesca Piqueras

Paesaggio dell’umanità” è il titolo della mostra allestita presso gli spazi del Palazzo Ducale di Massa, che dal 28 ottobre al 26 novembre 2017 ospita gli scatti della fotografa Francesca Piqueras. L’estemporanea è la sesta mostra del ciclo “Art Now” sulla comunicazione dell’arte contemporanea, promossa dal Comune di Massa con la direzione artistica di Mauro Daniele Lucchesi, dell’Associazione Quattro Coronati.

La mostra

Come riporta l’Adnkronos, al Palazzo Ducale sono esposte 25 immagini, di grande formato, che riassumono il percorso creativo di questa artista e fotografa che concentra la sua ricerca tra mare, cielo, metallo e ruggine fotografando relitti di navi abbandonate nei luoghi più remoti, piattaforme petrolifere, vecchie strutture industriali e militari. Un caos di strutture metalli, coaguli marroni espulsi da un’umanità febbrile, violata dal mare e dal tempo, esiliato dal vivente. Cumuli sgualciti da tempeste, giganti caduti vinti dall’oblio, le loro carcasse macchiano l’oceano, la sabbia, nel silenzio e nel vento. Testimoni ispirati a una deriva dell’umanità, i “relitti” di Piqueras si impongono come una parabola delle forze in movimento: l’invenzione dell’uomo contro l’inevitabile distruzione.

Lucchesi: “Una nuova visione della nostra società”

Secondo Mauro Daniele Lucchesi, curatore dell’estemporanea, l’artista “appartiene a una nuova emergenza di artisti fotografici, legati all’urgenza di dare significato al caos, anche se per magnificarla. L’abbandono, la rinuncia, la dimenticanza della nostra condizione umana in una apocalisse post-industriale, disseminata di scheletri irriconoscibili nel loro annientamento imminente. Una visione acuta di una società senza ancoraggio. Questi paesaggi strappati, feriti da un malessere che odia più della ruggine, preannunciano la fine. Un’apoteosi senza metafisica – conclude Lucchesi – una trasmutazione della materia e della luce in cui il destino di un’umanità ignorante della propria distruzione è scritto in una dolorosa fatica”.

L’artista

Francesca Piqueras è cresciuta in una famiglia di artisti. Parente stretta di Marcel Duchamp, Man Ray e Salvador Dalì, era solita incontrarli d’estate, a Cadaques. Al centro di questo mondo brillante, è cresciuta in solitaria e attenta osservazione. Dai tredici anni, ha sviluppato una passione per la videocamera e la fotocamera che ha ricevuto in dono e le hanno permesso di affinare, a distanza, il suo sguardo. Ha studiato storia dell’arte, del cinema, ha lavorato come montatore, senza mai abbandonare i suoi dispositivi. La sua prima esposizione risale al 2007. Si tratta di una serie di bianco e nero sull’universo urbano che lei non esita a mostrare con crudo realismo. Colpita da “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni, la sua attenzione si concentra su altre tracce, quelle della civiltà industriale. Passa al colore e nel 2011 presenta la serie “Architettura dell’assenza”, fotografie sugli smantellamenti dei battelli nei cantieri in Bangladesh, e nel 2012, “Architettura del silenzio” foto di navi cargo affondate al largo delle coste della Mauritania, contrarie a tutte le norme del diritto.

“Gli effetti della natura sulle costruzioni degli uomini”

“Io fotografo ciò che l’uomo ha costruito per ragioni economiche o di guerra – spiega l’artista – dove spesso per le sue esigenze architettoniche inventa scuse incredibili costruendo in situazioni estreme e in un modo assai discutibile. Ma il mio scopo non è di denunciare, piuttosto mi interessa la follia umana, i suoi paradossi e le sue contraddizioni. Trovo che l’estetica di questi oggetti – aggiunge Piqueras – sia al suo massimo quando la natura fa il suo corso. Tempo, ruggine, degrado reinventano queste architetture e poeticamente scolpiscono e riscrivono la storia umana. La nostra storia. Fotografo da diversi anni il paradosso di un mondo industriale furioso, paesaggi marini da cui emergono strutture arroganti: piattaforme petrolifere, naufragi, guerrieri forti, che scelgo quando sono al degrado, morenti, mangiate dagli elementi. Trovo una metamorfosi di sculture potenti e monumentali, dotate di autonomia, di una propria estetica che io trasformo in scenografie di design post-industriale. Io continuo a difendere questo realismo estetico e questi giganti caduti – conclude -, abbandonati, dimenticati, totem e tabù della presenza umana, con i suoi eccessi e la sua incapacità di pensare il futuro del pianeta“.