1969: la frontiera cosmica della Guerra fredda

Coi V2 venne colpita Londra, con il Saturn V l'uomo raggiunse quella che è tuttora la sua frontiera più lontana. Wernher Von Braun, ex ingegnere della Germania nazista diventato capo del Programma spaziale statunitense, ha compiuto, parafrasando la celebre frase con la quale Neil Armstrong accompagnò la messa del primo piede umano sulla luna, un grande passo indietro (ma forse sarebbe il caso di dire avanti): dalle progettazioni create per distruggersi a vicenda, scelse di mettere la sua abilità nella missilistica al servizio della corsa allo spazio. Anzi, per farla ancora più semplice, mise essenzialmente la scienza al servizio di se stessa. Un segno tangibile che l'era della contemporaneità non si poneva altri limiti che quelli della propria immaginazione. D'altronde, nel 1969 si era ancora in piena Guerra fredda: la società umana era alle prese con le divisioni della Cortina di ferro, con l'omicidio di Martin Luther King un anno prima e con il muro di Berlino che esisteva ancora (e sarebbe durato altri vent'anni). In sostanza, nel '69 gli uomini viaggiavano nello spazio ma si combattevano nel Vietnam, a Woodstock si radunano gli hippy e la musica diventava strumento di unità e pacifismo, mentre al di qua dell'Atlantico la bomba di Piazza Fontana inaugurava la stagione degli Anni di piombo. Forse un controsenso, che affiancava all'allargamento oltremisura delle frontiere dello scibile una quotidianità che ancora faticava a scrollarsi di dosso la paura della resa dei conti atomica fra superpotenze.

Dall'orbita alla luna

La corsa allo spazio si inserisce in un contesto di fervore sociale e cambiamenti epocali, che stavano strappando i restanti collettori con il mondo che era uscito dal dopoguerra per far spazio a un nuovo modo di intendere la società. Niente che abbia impedito di sfiorare la crisi delle armi anche dopo la spartizione in blocchi del planisfero terrestre. Ecco allora che lo strumento della scienza prende in mano la situazione, dirottando i timori di uno sviluppo tecnologico incentrato sulla produzione di armi di distruzione di massa alla ben più affascinante visione dello spazio-cosmo. Una corsa in cui gli Stati Uniti si presentavano in ritardo di qualche anno, visto che nel 1957 i russi avevano già mandato in orbita lo Sputnik 1 e, nel 1961, avevano spedito nello spazio il primo essere umano, il cosmonauta Jurij Gagarin e la sua Vostok 1. Non il primo essere viviente, perché i russi ci avevano già provato con il controverso esperimento della cagnetta Kudrjavka detta “Laika”, entrata in orbita con lo Sputnik 2 ma, di fatto, sacrificata in nome della sperimentazione tecnologica che, in quel momento, poneva i sovietici un passo avanti agli americani e, quindi, in vantaggio su tutto il resto. Niente di strano che, già a partire dagli sgoccioli dell'amministrazione Kennedy, Lyndon Johnson prima e Richard Nixon poi ritenessero opportuno sviluppare oltremodo il programma spaziale, puntando i telescopi su quello che, fin lì, era considerato il massimo della lungimiranza.

La missione

Nasce lì il piano per l'Apollo 11, con i cittadini americani in realtà più preoccupati per la guerra in Vietnam che per l'assemblaggio del Saturn V. Certo, sintonizzato sulle reti che inquadravano la capsula con Neil Armstrong e Buzz Aldrin toccare il suolo lunare, c'era praticamente chiunque avesse un televisore dentro casa e, chi non lo aveva, era sicuramente andato a trovare qualche parente, tanto che il 94% della popolazione seguì quell'evento, forse il primo in assoluto che non fosse di natura bellica a riguardare l'umanità intera. E, soprattutto, mette un vincitore sul podio della corsa allo spazio, uno che viene dagli Stati Uniti. Tutto quello che sarebbe avvenuto dopo non è altro che un corollario del trionfo che fu lo sbarco sulla luna, il vero colpo a effetto del blocco americano che, di lì a sei anni, avrebbe concluso la stagione della conquista dello spazio con il volo a braccetto dell'Apollo 18 e della Sojuz 19. Uno dei primi passi verso il disgelo.