Djivas: “La Pfm, De André e quella voglia di buona musica…”

Monumento della musica prog ma non solo. La Premiata Forneria Marconi è una pluralità di artisti a tutto tondo, in grado di spaziare per l'orizzonte intellettuale e offrire al pubblico una sintesi non solo di buona musica, ma anche di bellezza. Un lavoro incessante fatto di esperienze continue, impressioni trascritte prima a parole e poi in suoni, capaci di attraversare un'intera epoca musicale senza perdere quella presa nel cuore di un pubblico che di ascoltare qualcosa di bello ha sempre un gran bisogno. A vent'anni dalla scomparsa di Fabrizio De André e a quaranta da quel meraviglioso tour che fuse poesia e musica in un condensato di emozioni che continua a incantare dopo decenni, il gruppo ha deciso di riproporre quell'esperienza: un modo per celebrare Faber ma anche, come racconta a In Terris Patrick Djivas, bassista e componente storico della band, per festeggiare la musica, quella vera.

 

Signor Djivas, un anno fantastico aspetta la Pfm: tanta attesa per la riproposizione del tour con De André e voglia di buona musica… E' il fascino del prog che ritorna?
“Io non direi così, ritengo che questa sia solo un'etichetta, la nostra è una musica totale. Dovessimo analizzare la nostra produzione, solo i primi due dischi sono ascrivibili al genere prog. Gli altri sono frutto di esperienze che ognuno di noi ha via via raccolto nel corso di un anno. Per noi era ed è importante esprimere ciò che siamo nel momento in cui scriviamo perché prima di tutto siamo musicisti. Noi, peraltro, veniamo da un periodo, quello degli anni '60-'70 in cui non c'era nulla per imparare, nessuna scuola. Abbiamo dovuto arrangiarci e qualsiasi cosa, ogni esperienza, era materia di insegnamento. Tutto quello che veniva fuori da questo bagaglio esperenziale diventava musica, alla quale è necessario aprirsi in ogni sua parte. Per quanto riguarda il prog, io penso che questo genere non sia passato ma galleggi nell'aria, pur essendo molto solido: chi ama questo tipo di musica difficilmente la lascia. Ciò che ogni volta mi colpisce quando suoniamo, è incontrare gente che si somiglia, come se tutti fossero una grande famiglia. Mi viene in mente una battuta che feci a un fan di Oslo durante un concerto: gli dissi che, poco prima, avevo incontrato suo cugino di Lima. Lì per lì rimase incuriosito ma la verità è che la buona musica non ha mai un ritorno, resta sempre”.

La musica, al di là dei generi, è quindi anche senso di appartenenza, libertà, capace di unire come pochi altri modi di espressione…
“Questo dipende molto dalle persone. La musica ha avuto un'importanza incredibile nel mondo, basti pensare a quanto seppe influire nelle generazioni passate. I giovani, in quegli anni, appartenevano alla società solo per un apprendimento meccanico. Poi è successo il '68 che è coinciso con una 'liberazione' dei giovani in tutto il mondo. La musica non ha bisogno di parole per emozionare e ha contribuito a rendere la gioventù una sorta di potenza mondiale. Se ci pensiamo, quella fu la generazione dalla quale nacque l'informatica, creata da ragazzi di 16-17 anni che, in breve tempo, hanno compiuto un'ascesa incredibile. Immagina cosa è stata in grado di fare la musica: ha saputo creare quei giovani che, a loro volta, hanno dato il via a una nuova era rivoluzionaria per la società”.

La riproposizione del tour con De André sarà il clou di quest'annata. Prima però c'è stato il Cruise to the edge. Un'esperienza molto particolare vissuta come unico gruppo italiano…
“Assolutamente, un progetto davvero interessante. E pensare che l'idea partì quasi per caso. Un produttore di musica jazz, dovendo organizzare un concerto, rimase senza locale dopo che un incendio lo distrusse. Un suo amico gli disse che a Miami e a Tampa c'erano molte navi ormeggiate al porto, con teatri bellissimi e con tantissimi posti, ideali per il suo spettacolo. L'idea funzionò, tanto che decise di replicarla ma questa volta facendo muovere la nave. Di fatto una crociera musicale che fu un successo. Da lì in poi si è replicato, con 10 o anche 15 gruppi rock. Ora c'è anche il prog, una mezza dozzina di gruppi che fanno concerti. Buona musica 24 ore su 24, a strettissimo contatto con il pubblico”.

In questo modo si crea un legame molto più intimo tra fan e cantante…
“Assolutamente. Non solo non è stressante ma al gente sa che può vederti, passare del tempo con te. Sa che tu sei lì con loro per alcuni giorni e non c'è nessuna pressione, anche perché la scaletta ti permette di organizzare tutto al meglio: 2 concerti, una sessione di autografi e una di fotografie. Ci sono duemila persone che ti passano davanti, li vedi in fila senza alcun problema perché sanno che tu sei lì a loro disposizione. Si instaura un rapporto molto sereno e molto tranquillo: i fan sanno che, in un modo o nell'altro, passeranno del tempo con te”.

Tornanado a De André, quel tour insieme fu probabilmente uno dei momenti più alti della musica italiana. Cosa c'è dietro l'idea di riproporlo dopo 40 anni?
“La nostra intenzione è solo quella di celebrare Fabrizio. Quello passato insieme è stato un momento straordinario: lui si è liberato di quella sorta di dipendenza di chansonnier diventando un artista a 360 gradi, a mio avviso il più grande di tutti. Per questo De André è come se fosse vivo, sempre accanto a noi, perché in ogni sua canzone ritrovi qualcosa che riguarda te. E questo grazie all'umanità che aveva. Un artista così lo puoi solo celebrare, come si fa per un matrimonio: una grande festa”.

Dal vostro incontro nacque qualcosa di meraviglioso. Quanto lavoro c'è stato perché due realtà musicali come le vostre producessero una sintesi così?
“C'è stato tanto lavoro. La Pfm ragiona con la sua testa e poi fa la cosa migliore, anzi, il meglio che è in grado di fare. Questo in fondo è l'importante: fare il meglio che si può. Con questa consapevolezza, non importa quale livello riuscirai a raggiungere, non ti vergognerai mai di averlo fatto. In quel 1979 fu proprio così: noi e lui facemmo il meglio che eravamo in grado di fare. Si sono incontrate due personalità artistiche, lui e noi come gruppo, con la nostra pluralità, che fanno questo mestiere perché è la loro vita. Uscì qualcosa di meraviglioso e non poteva essere altrimenti”.