“Vogliamo la pace”: il sogno di un’adolescente che è fuggita dall’Iraq

La storia di A., quindici anni e mezzo, fuggita dall'Iraq e rifugiata ad Atene

Incontro A., quindici anni e mezzo, ad Atene, dove mi trovo grazie a Volunteer In The World Società Cooperativa Sociale (www.volunteerintheworld.com). Più precisamente, la incontro al centro Love and Serve Without Boundaries, fondato e gestito da Maria – aiutata da diverse persone, fra cui dei volontari internazionali – che offre vari tipi di supporto a persone in difficoltà nella capitale greca, fra cui profughi e rifugiati. C’incontriamo in una stanza piuttosto spoglia, se non fosse per la lavagna e i gessetti. Oggetti che rivelano la natura, seppur non ufficializzata, di questo spazio: un luogo dove imparare. A. e tante altre persone di tutte le età, provenienti da diversi Paesi, vedono in questa stanza il luogo dove costruire, mattoncino dopo mattoncino, il proprio futuro.

“Gli Stati Uniti fanno di tutto perché la gente pensi che noi musulmani siamo tutti terroristi, ma non è così. Vogliamo la pace. La mia famiglia ed io non siamo venuti qui in Grecia per avere più soldi, ma perché nel nostro Paese c’erano i combattimenti e le prospettive di un futuro, specialmente per le donne, erano misere”.

Sembra già un’adulta, A., mentre parla seduta al suo banco, il viso avvolto dall’hijab e una miccia negli occhi mentre racconta con impeto della vita nel suo Paese ma anche in altre nazioni come la Siria o l’Afghanistan: “In Iraq ci sono tante famiglie povere. Ci sono arabi, armeni, curdi, tutti… per questo ci sono tante situazioni difficili. Molte famiglie non hanno soldi per comprare il pane o l’acqua, così come in Siria. Tanti bambini non vanno a scuola ma lavorano. In Siria molti muoiono per via della guerra, le case vengono distrutte come se niente fosse, mentre in Afghanistan ci sono i Talebani. Per questo motivo, le donne e le ragazze non possono fare niente. Per esempio, non possono lavorare in pubblico. Voglio la libertà per l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, lo Yemen, la Tunisia e tutti i Paesi musulmani”.

Come tutte le persone che ho incontrato, costrette a fuggire dal proprio Paese, A. sente la mancanza dell’Iraq: “La vita lì non era facile ma neanche qua in Europa lo è. Nel mio Paese, se una persona è in difficoltà, per esempio senza soldi, troverà qualcuno che le dà qualche moneta o delle banconote o ancora un pezzo di pane. In Europa non è così, qui nessuno ti dà niente. Il mio Paese è bellissimo, però ha anche tanti problemi. Noi studiavamo ma per cosa? Non avevamo possibilità di avere un futuro degno di questo nome”.

A. vive ad Atene con la famiglia da tre o quattro anni e il suo sogno è diventare un avvocato, “perché la gente possa rivolgersi a me ed io aiuterò le persone in merito ai loro problemi”. Il suo sguardo si fa distante mentre dice che le piacerebbe davvero tornare nel suo Paese, “ma non ora, ci sono ancora i combattimenti. Un giorno, ci tornerò, Inshallah”.

A. e una sua compagna di classe, Y., quattordici anni e mezzo, dall’Afghanistan, si preparano per andare. Si alzano quasi contemporaneamente, prendono i libri e i quaderni che hanno con sé ed ecco che vedo cadere quelle maschere che sono costrette a indossare, incollate sui loro volti di ragazzine da una vita troppo crudele, che le ha fatte crescere in fretta. Improvvisamente, non c’è più spazio per gli argomenti seri, per gli sguardi profondi, per la malinconia nel pensare ai loro due Paesi, martoriati ma tanto amati, e le due studentesse si apprestano a lasciare l’aula ridacchiando e chiacchierando come farebbero due adolescenti che non hanno un solo problema al mondo. Non posso fare a meno di sorridere, nel vedere che, nonostante tutto, la giovinezza non le ha ancora abbandonate, ma le pesanti parole di A. sembrano echeggiare nell’aria immobile: “Non ho il passaporto, ho una carta che mi permette di spostarmi all’interno della Grecia e basta. Vogliamo la pce, solo questo”.

Prima che esca, le dico che mi ha colpito la foga con cui ha detto quelle tre parole, “VOGLIAMO LA PACE”, come se fosse (giustamente) stufa di ripetere una cosa tanto semplice. Le dico, “Le scriverò in maiuscolo, perché la gente non le ignori, e capisca che è un grido”. Lei mi sorride e poi se ne va con Y., in una nuvola di speranza.

Maricla Pannocchia è una tirocinante della cooperativa sociale Volunteer in the World