Vita da detenute: cosa si nasconde oltre quel cancello

Storie di amore, fede e speranza verso una vita nuova. Adriana Intilla, funzionario giuridico pedagogico del carcere di Pozzuoli, racconta come si svolge la vita dentro il centro di detenzione e cosa è cambiato durante il lockdown

“Dal 9 marzo quando tutta l’Italia si è completamente paralizzata la situazione ha coinvolto anche noi, per questo motivo in via precauzionale da quella data abbiamo sospeso ogni tipo di attività condotta dalla comunità esterna. Tutti i corsi e le attività dei tirocinanti che venivano qui per capire come si svolgesse la figura dell’educatore sono stati sospesi. Abbiamo dovuto reinventarci per evitare l’ozio in un momento di angosce e di paura. É stato scritto un nuovo capitolo” ha raccontato Adriana Intilla, funzionario giuridico pedagogico e capo area ufficio trattamento del carcere di Pozzuoli (Na).

Al 30 aprile 2019 secondo il XV rapporto di detenzione delle donne in carcere, erano 2.659 le donne detenute a fronte di una popolazione ristretta. Questa, infatti, aveva superato di 439 detenuti la soglia dei 60 mila. Le donne detenute rappresentavano così nel complesso il 4,4% dei ristretti in Italia.

 

La testimonianza dal carcere di Pozzuoli

Le donne carcerate sono condannate a una doppia pena, detenute in piccoli spazi con difficoltà legate ai figli, alla famiglia e alla burocrazia per poter cercare un riscatto attraverso il lavoro. Interris.it ne ha parlato proprio con Adriana Intilla.

 

La presenza femminile negli istituti di detenzione

L’andamento della presenza femminile negli istituti di pena italiani negli ultimi 28 anni è stata grosso modo stabile. Se al 31 dicembre del 1992 risale il picco percentualmente più elevato di presenza femminile sul totale dei ristretti, con le 2.411 detenute presenti che rappresentavano il 5,43% di tutta la popolazione detenuta (all’epoca composta da 47.316 persone), il record assoluto di presenze è stato raggiunto nel 2010.

In quell’anno la rilevazione di fine giugno contava una presenza femminile di 3.003 detenute che rappresentavano però – in uno dei momenti di massimo affollamento del sistema penitenziario italiano (68.258 detenuti al 30 giugno) – il 4,4% dell’intera popolazione reclusa. È stato questo l’unico momento dal 1991 in cui la popolazione femminile ristretta ha superato il muro delle tremila unità.

Nei primi mesi del 2019 vi è stato un lieve incremento (+0,06%) nella presenza femminile che è passata dal rappresentare il 4,32% dei detenuti al 4,4% come si diceva in apertura.

 

Gli istituti esclusivamente femminili

Non tutti i 190 istituti penitenziari italiani ospitano donne ristrette. Tuttavia sul territorio sono solo 4 gli istituti esclusivamente femminili: le due case circondariali di Pozzuoli (NA) e di Rebibbia Femminile a Roma e le due case di reclusione di Venezia Giudecca e di Trani. Questi quattro istituti nel complesso ospitano 669 detenute, di cui 260 straniere.

La vita in carcere durante il lockdown

“Si è voluto consentire loro anche una sorta di autogestione. Per questo abbiamo messo loro a disposizione il teatro dove potevano scendere ovviamente seguendo le regole del distanziamento. Hanno utilizzato la struttura per fare il karaoke, attività di gruppo e di intrattenimento, proiezione di film così da trascorrere qualche ora dimenticandosi delle preoccupazioni per i loro congiunti. Inoltre sappiamo che per le donne apparire in ordine è fondamentale, così alcune detenute che hanno una certa manualità con spazzola e phon si sono prese cura dei capelli delle loro compagne”.

Durante il lockdown sono stati sospesi gli incontri con i familiari. Questa decisione ha causato molte polemiche e varie manifestazioni di rivolta da parte dei detenuti, qual è stata la situazione a Pozzuoli?
“Per quanto riguarda gli incontri con i familiari sono stati sospesi ma sono state consentite delle telefonate extra anche con l’utilizzo di social come whatsapp, per limitare il peso della distanza in un momento così difficile. Dalla fine di maggio sono stati consentiti i primi incontri visivi, con un solo familiare più un minore alla volta all’interno dell’area verde senza potersi toccare. Le detenute non hanno obiettato anzi hanno subito messo in pratica le nuove regole. Addirittura alcune per evitare di soffrire hanno preferito non vedere ancora i propri figli perché sapevano che sarebbe stato impossibile non poterli abbracciare. Ad ogni modo hanno anche criticato il comportamento di quelle persone che si sono ribellate alle regole definendoli i loro comportamenti da irresponsabili”.

Come vivono il loro rapporto con la fede le detenute?
“Da quando è stato ripristinato il servizio domenicale della messa, dato che anche questo era stato sospeso, si è ritornati ad una pseudo normalità. Oggi le donne hanno incontri con il cappellano dell’istituto, hanno cominciato a fare colloqui di sostegno nel rispetto del distanziamento e delle disposizioni vigenti. Anche questa è una parte fondamentale del loro percorso di rinascita che affrontano all’interno dell’istituto”.

Cosa significa essere un’educatrice in un carcere oggi?
“Come educatore ho cominciato ad avere una visione diversa delle donne detenute. Sicuramente chi sbaglia deve pagare ed espiare la sua condanna, però mi sono resa conto che dietro alcuni comportamenti c’è un vissuto straziato, violentato, sofferto e tutta una serie di motivazioni che in qualche modo hanno cambiato la visione della realtà.

Ciò che per noi è normale, il rispetto delle regole e del prossimo, può non esserlo per chi invece è cresciuto in un contesto familiare dove hanno sempre vissuto comportamenti malsani, promiscuità, violenze. In alcuni casi per queste persone diventa normale anche fare una rapina o spacciare droga. Ci sono persone che si sono ritrovate in certe situazioni perché spinte dalla disperazione del momento e dalla mancanza di aiuto. Così come può accadere di commettere un’azione estrema a danno di un altro in un momento di “lucida follia”.

Come si diventa oggi educatore per le detenute di un carcere? Come si svolge questa professione?
“Devo precisa re che si accede per concorso pubblico. Intraprendere questo percorso deve sicuramente piacere altrimenti non puoi farlo. All’inizio tendi a farti coinvolgere poi pian piano capisci che devi mettere una piccola distanza tra te e il tuo interlocutore che ti consente di poter tornare a casa senza portarti il peso dei loro drammi. Questo non vuol dire che quando li ascolto sono indifferente, al contrario cerco di comprendere al meglio per poi poter dare loro il mio aiuto e anche delle risposte.

Facendo questo lavoro ho anche imparato a non giudicare. Quando parlo con loro, infatti, a prescindere dal reato che hanno commesso le tratto come donne. Io guardo la persona, le aiuto a camminare all’interno di questo perimetro, le aiuto ad affrontare le loro giornate soprattutto se si tratta di persone che non hanno mai avuto a che fare con il carcere. L’obiettivo è quello di contribuire per il loro reinserimento sociale attraverso una diversa prospettiva”.

All’interno del carcere di Pozzuoli però c’è anche un polo Universitario, come cambia la vita delle detenute?
“Questa è una delle nostre più grandi fortune. Due anni fa, infatti, il nostro Provveditorato ha sottoscritto un protocollo di intesa con l’Università Federico II con sede presso il Centro Penitenziario di Secondigliano. All’inizio avevamo detenute iscritte a vari corsi universitari, alcune hanno poi proseguito anche dopo aver ottenuto una misura alternativa alla detenzione. Una sola è rimasta all’interno del carcere e ancora oggi sta continuando il percorso di studi”.