“Ti regalo una famiglia”

In occasione del 50esimo anniversario della fondazione ed in vista della Giornata mondiale della famiglia indetta dall'Onu, la Comunità Papa Giovanni XXIII celebra oggi il primo open day delle sue case famiglia che rappresenta il modello più autentico e rappresentativo dello stile di accoglienza dell'associazione fondata dal sacerdote con “la tonaca lisa“, ora Servo di Dio, don Oreste Benzi. La campagna per la sensibilizzazione su queste realtà sarà lanciata anche sui social media, grazie all'hashtag #iosonofamiglia.

In 50 città d'Italia, dal Piemonte alla Sicilia, 50 realtà apriranno le loro porte a chiunque voglia capire come si vive in queste realtà. Non si tratta di strutture residenziali, ma di “strutture affettive“, dove al posto di operatori e utenti ci sono mamme e papà che mettono la loro vita a servizio di chi ha bisogno di essere accolto. Una scelta di vita che nasce proprio dall'intuizione di don Oreste, che ha ideato le case famiglia già agli inizi degli anni Settanta. In Terris ne ha parlato con Giovanni Paolo Ramonda, presidente dell'Apg23.

L'elenco completo delle case coinvolte nell'iniziativa è su casafamiglia.apg23.org

Cosa sono le case famiglia? Come è nato questo termine? Da cosa si è avuta l'ispirazione?
“Sono un'intuizione di don Oreste Benzi e sono nate per dare una famiglia, cioè un papà e una mamma, a chi ne è privo o a chi temporaneamente non può rimanere con i propri genitori di origine a causa, a volte, di un handicap, di una malattia grave o anche di un'incapacità dei genitori di educare in modo adeguato i propri figli. Lo scopo, quindi, è proprio quello di dare una famiglia a ogni bambino, perché il loro bisogno è quello di crescere con un papà e una mamma. Don Oreste, quasi 50 anni fa, ha avuto questa intuizione, consapevole che la società rispondeva alle necessità degli orfani o dei portatori di handicap mettendoli in istituti, o in grandi strutture sanitarie socio-assistenziali che però non fornivano il calore e l'affetto di un focolare domestico. La casa famiglia, oltre ai genitori, offre dei fratelli, una vita normale, inserendo i ragazzi accolti in una scuola, nell'ambiente parrocchiale o in quello ricreativo del quartiere. E' una vita di integrazione e di affetti come ce l'hanno tutti i bambini”. 

Con la legge 149/2001 che ha stabilito, tra le altre cose, la chiusura degli istituti per minori entro il 31 dicembre 2006, si è iniziato ad utilizzare la dicitura case famiglia anche per strutture residenziali che non fanno parte dell'Apg23. Ma quali sono le differenze tra queste realtà e le vostre?
“La caratteristica principale è la presenza della figura paterna e di quella materna che vivono 24 ore su 24 nella casa. Nelle altre strutture gli operatori e gli educatori, anche molto validi, fanno il loro turno di lavoro o volontariato e poi tornano alle loro vite. Ma il bisogno dei bambini è quello di avere una relazione significativa continuativa. Poi come dicevo prima, l'inserimento nel territorio, la valorizzazione dei talenti di ogni ragazzo e sviluppo di un percorso, là dove è possibile, anche verso l'autonomia. Molte volte, però, trattandosi di bambini o ragazzi con gravi handicap o patologie importanti o malattie mentali, rimangono con noi tutta la vita, entrando a far parte completamente di questo 'nuovo' nucleo familiare”. 

Come si diventa casa famiglia?
“Molte coppie sentono l'esigenza di aprirsi all'accoglienza, tant'è che alcune sono disponibili all'affidamento, quindi un'accoglienza temporanea, per poi far tornare i ragazzi dai loro genitori, oppure all'adozione, là dove i bambini non hanno più radici. La casa famiglia è proprio l'accoglienza di bambini che non possono rimanere con i loro genitori. Si diventa mamma e papà delle nostre 'strutture affettive' dopo un periodo di esperienza, di cammino con la comunità, quindi anche di conoscenza dei percorsi educativi. Soprattutto ci deve essere anche la conferma della stessa associazione che valuta le capacità genitoriali e la possibilità che la coppia sia in grado di fare questa esperienza che, comunque, è una scelta molto impegnativa e coinvolgente”. 

Vengono seguiti dei corsi di formazione specifici?
“Innanzitutto c'è la parte di formazione interna alla nostra associazione che è specializzata su questi percorsi. Poi molti dei responsabili di queste strutture sono laureati, o hanno il titolo da educatore professionale, quindi accedono anche a corsi esterni che lo Stato propone e richiede”. 

Oggi ci sarà un open day delle case famiglia in tutta Italia. Come mai avete voluto portare avanti questa iniziativa? Qual è l'obiettivo?
“Siamo a 50 anni di vita della nostra associazione e volevamo rendere possibile e accessibile la visita delle nostre 'strutture affettive' a tutti. Le persone che sono sul territorio ci conoscono perché i nostri bambini frequentano le scuole, il catechismo e i vari centri sportivi e aggregativi. Ma ci sono molte persone che non sanno che cosa è la Comunità Papa Giovanni e cosa è una casa famiglia. Con l'open day, più che discorsi teorici, vogliamo far toccare con mano, a quanti lo desiderano queste nostre realtà. Chi verrà a visitarci potrà stare con noi, fare domande e, chissà, magari un giorno scegliere anche di diventare volontario e, perchè no, anche membro dell'associazione”. 

Quaranta anni fa è stata approvata la legge Basaglia che ha disposto la chiusura dei manicomi. Nelle strutture dell'Apg23 vengono accolte anche persone affette da malattie psichiatriche gravi. Come l'Associazione sostiene quelle famiglie che hanno figli che soffrono di queste patologie? E lo Stato cosa potrebbe fare per queste persone?
“Due terzi dei nostri accolti – che sono diverse migliaia – sono sofferenti nella psiche o hanno problematiche mentali. Proprio le case famiglia sono dimostrazione che là dove c'è un'accoglienza di tipo familiare, ma anche la collaborazione con le strutture sanitarie del territorio, come i centri di salute mentale, è possibile un reale reinserimento nella società. Molti dei nostri ragazzi che soffrono di questo tipo di disturbi vanno a lavorare nelle cooperative sociali. C'è un'effettiva integrazione. Il problema qual è? Ad oggi queste risposte valgono solo per poche persone, ma la maggioranza delle famiglie vive questo problema sulla propria pelle. Bisognerebbe aumentare, da parte dello Stato, il sostegno e anche il finanziamento di queste strutture socio-assistenziali competenti sul territorio, altrimenti si incorre nel rischio che il peso della relazione con i malati ricada solo sulle famiglie. Noi riteniamo che la chiusura dei manicomi sia stato un bene, però non si è ancora pienamente realizzato un sostegno reale alle famiglie. Lo Stato deve prendere a cuore questa tematica. Tra l'altro, le statistiche evidenziano come nei prossimi anni in Italia ci saranno circa 6 milioni – circa il 10% della popolazione – che ha avuto o avrà anche solo temporaneamente malattie mentali. Un problema molto reale, molto vivo”.