Se i compiti a Natale sono il sintomo di una scuola in affanno

Sono scattate le vacanze di Natale per gli alunni e studenti italiani. Spesso per molti di loro i giorni a disposizione si traducono, dismesse le grandi abbuffate natalizie, in maratone per finire i compiti e cercare di conciliare il divertimento e il riposo che pochi giorni in famiglia garantiscono. L'anno scorso l'allora Ministro dell'Istruzione, Marco Bussetti, aveva invitato gli insegnanti a non sovraccaricare gli alunni di compiti. Quest'anno, con il dilemma che torna a presentarsi anche con Lorenzo Fioramonti alla guida del Miur, c'è chi la decisione l'ha presa senza aspettare indicazioni ministeriali: Milena Valbonesi, preside dell'Istituto Comprensivo “Grava” di Treviso, avrebbe inviato una circolare ai suoi docenti, invitandoli non solo a un confronto con tutto il corpo insegnanti, ma anche a una presa di coscienza del significato profondo del tempo natalizio, “un tempo di riposo” ha ricordato: “Ognuno di voi valuterà il quantitativo di esercizi, letture e produzioni da assegnare ai propri alunni […]. Così anche i nostri studenti potranno riacquistare le forze, e impegnarsi in qualche potenziamento di abilità o recupero di conoscenze non del tutto acquisite, ma sempre all'insegna dell'equità e della pacatezza” riporta il documento. La questione è annosa e spesso foriera di due schieramenti: sicuramente la preside Valbonesi è tra coloro che non vogliono sovraccaricare gli studenti, consapevole che la formazione, quella vera, si fa tra i banchi di scuola. Le fanno da contraltare, però, tutti quei docenti per i quali le “vacanze” sono tali in senso etimologico: “pieni” da riempire, appunto. Perché non farlo con i compiti? Secondo Roberto Riccidirigente di ricerca Invalsi, gli unici titolati a prendere una decisione sono gli insegnanti: “Saranno loro a valutare come bilanciare la necessità di utilizzare le vacanze per migliorare l'apprendimento e dedicarsi al riposo e allo svago” ha dichiarato a Interris.it, certo però di una consapevolezza: “Laddove studenti e famiglie seguono le indicazioni degli insegnanti, i risultati sono migliori” ha detto.

Interris.it ha colto l'invito e ascoltato un insegnante: Davide Tamagnini, insegnante di scuola primaria, attualmente distaccato presso l'Università di Milano Bicocca come dottorando in Scienze dell'Educazione. L'importante, a ogni modo, è che la scuola sia quel luogo d'incontro e condivisione che spesso ha auspicato PapaFrancesco, che in più occasioni ha visitato istituti pubblici: “Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà – disse nell'udienza al mondo della scuola del 2018 -, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà!”.

Professore, è giusto assegnare i compiti agli studenti durante le festività natalizie?
“Esco fuori dalla diatriba sterile, riportandole un episodio: a un certo punto dell'anno scolastico, gli alunni della mia classe mi hanno detto: 'Maestro, i compiti servono per imparare a fare i compiti'. L'affermazione mi ha colpito per la sua amara verità. Facendo i compiti non è che divento più intelligente, ma imparo ad essere più responsabile. Il compito, se è un piccolo impegno quotidiano, è una responsabilità. Forse ci aiuta a lavorare sulla responsabilità di ciascuno”.

Dov'è l'errore, allora?
“Si sbaglia quando la scuola delega la famiglia. Se giochiamo sulla parola 'responsabilità', ci può essere il rischio di de-responsabilizzare. Quando a volte, per esempio, la scuola suggerisce agli studenti 'la scuola potete farla a casa', questo fa perdere il suo valore sociale, appunto. Spesso la 'questione dei compiti' è la punta di un iceberg che fa vedere quanto si deresponsabilizzi la scuola. La scuola non può avvallare questo”.

Perché è importante ribadire l'importanza del ruolo della scuola nella società?
“La mia esperienza di insegnante in una scuola pubblica mi ha dato un grande valore: l'eterogeneità di appartenenza dei bambini che io avevo in classe. Dentro la scuola pubblica c'è uno spaccato della società che dovrebbe far riflettere sulla sua importanza. In fondo, il messaggio è: vado a scuola per imparare a stare nella società. Avere un insegnante aiuta a capire le regole e le possibilità che lo stare in società dà a ciascuno”.

Il 31 dicembre il presidente della Repubblica Mattarella farà il consueto discorso di fine anno. Lei, anche come dipendente pubblico, cosa si aspetta per la scuola del 2020?
“Mi aspetto che la scuola non faccia perdere in loro la voglia di imparare, che chieda loro tanto, perché sapranno così dare tanto. A volte, vedo una scuola che si arrende nella possibilità di credere che i ragazzi possano fare meglio. Gli insegnanti oggi sono molto demotivati, non tutti vogliono entrare in relazione con loro”.

È, dunque, importante riflettere sulla sua funzione?
“La scuola non è una palestra per quando si diventa grandi. La scuola è la società. Quando un insegnante non investe nella relazione educativa con gli studenti, rinuncia a trasmettere degli sguardi culturali. Quando hai un ragazzo disabile che viene messo con il banco fuori dall'aula, non c'è bisogno di insegnare ai bambini quanto è bello essere diversi, perché la diversità viene sempre messa fuori. Quando un bambino si comporta male o lo si manda dal preside o fuori dalla classe, cosa si sta insegnando? Che ci sono i problemi e che questi problemi vanno messi alla porta. Bisogna testimoniarli i valori”.

Nel 2023 saranno i cento anni dalla Riforma Gentile. Va liquidata, secondo lei?
“Alcuni aspetti sono già stati superati, se pensiamo all'inclusione della disabilità e le classi speciali. Sicuramente ci sono tanti altri temi, come quello dell'inclusione alla cittadinanza, che andrebbero affrontati. Ci sono riforme che vanno oltre la scuola. Tutti i ministri vogliono fare una loro riforma e comprendo le difficoltà che ci sono a portarle avanti”.

Qual è il rischio maggiore che la scuola non può più permettersi?
“Il fatto che vi siano nel sistema persone non competenti e non fa nulla per cambiare le cose. Se non riesci ad afferrare il senso nel lavoro di insegnante e rinunci a formarti e lasciarti formare, devi fare un altro mestiere. Lo Stato che invece assume oggi una persona per i prossimi trent'anni, sta condannando il sistema scolastico a non essere efficiente. E poi, va detto che alcune università formano degli studenti dando loro delle grandi capacità e competenze dal punto di vista teorico-pratico. Il rischio è che non li preparano a portarle nel sistema scuola e che si vanifichino tante cose belle che essi hanno imparato”.