L’odissea di Fatima per scappare dal terrorismo islamico

QQuattro anni di viaggio per raggiungere la libertà: l'Italia. E' questa la “misura” dell'odissea – durata esattamente 50 mesi – di Fatima (nome di fantasia) ragazza mussulmana poco più che ventenne scappata dal suo Paese, la Somalia, dopo il brutale assassinio di suo padre e di suo marito da parte degli estremisti islamici di Al-Shabaab. Questo gruppo terroristico jihadista sunnita, il cui nome in lingua araba significa “i Ragazzi”, è attivo in Somalia dal 2006. L'attacco più cruento perpetrato dal gruppo è stato quello più del 21 settembre 2013, quando 10 uomini armati non identificati entrarono nel lussuoso centro commerciale Westgate di Nairobi (in Kenya) e iniziarono a sparare alla folla, uccidendo 63 persone e ferendone 175. L'ultimo attacco in ordine di tempo solo 5 giorni fa, lo scorso 15 giugno, quando un'autobomba è esplosa vicino al Parlamento di Mogadiscio, la Capitale somala, uccidendo 8 persone e ferendone altre 16.

La storia di Fatima: la fuga

Fatima ha sperimentato sulla propria pelle l'odio e la violenza irrazionale di questo gruppo jihadista, nonostante sia lei sia la sua famiglia fossero di religione mussulmana. La stessa religione e lo stesso Dio venerato (paradossalmente) dai miliziani. In questa storia, le vittime sono le prime a non comprendere il perché di tanta cattiveria perpetrata da quelli che, fino a poco prima, consideravano dei fratelli. E non è un eufemismo: sotto i passamontagna di quei “ragazzi” si nasconde il volto del vicino di casa, di un conoscente o, purtroppo, di un parente. L'ideologia jihadista nasconde interessi ben più “terreni”: appropriarsi di case, soldi e proprietà altrui con l'uso della forza.

Incontro Fatima in un luogo protetto, a sei mesi dal suo  arrivo in Italia grazie a un corridoio umanitario e alla umana carità di chi, incontrandola per strada quasi morta dopo tre anni di violenze e prigionia, invece che voltarsi dall'altra parte l'ha aiutata e l'ha affidata a un presidio Unhcr, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in Libia. Ma questa è solo la fine; in tutto il lungo e travagliato viaggio verso l'Italia – avverto il lettore – dell'”umana pietà” non v'è traccia. Appena la vedo, capisco che deve essere giovanissima. Ha infatti – mi racconta – poco più di 20 anni. E' nata in una famiglia somala non ricca ma neppure povera: suo padre aveva una piccola “tabaccheria” dove vendeva sapone e sigarette. La madre, come tradizione, faceva la casalinga. Fatima non è mai andata a scuola ma parla un po' di inglese e sa leggere e scrivere grazie a quel padre premuroso che le ha fatto anche da maestro. Si è sposata con suo cugino a 15 anni (“E' una cosa normale lì”, mi assicura, notando il mio sguardo perplesso) col quale fa tre figli in tre anni. Addirittura, cosa poco frequente per una donna in quella parte di Mondo, qualche volta aiuta suo padre in negozio. Il venerdì vanno tutti in moschea per la preghiera. Una vita normale e per sua stessa ammissione felice, fino all'arrivo di persone incappucciate che, col mitra spianato, passano di casa in casa a dettare le nuove regole di comportamento: il divieto per le donne di uscire da casa senza un uomo che le accompagni (e comunque mai di notte) e l'obbligo di indossare il burka. E' la sharia: per chi si oppone, c'è la morte. E il padre di Fatima si è opposto. Non una, ma tante volte: pressioni, violenze, telefonate notturne con minacce di morte non lo hanno fatto desistere. Ma la famiglia vive nel terrore, tanto che Fatima decide di far allontanare i bambini mandandoli insieme alla nonna in un'altra città, un piccolo centro abitato lontano da quella follia. Lei resta col padre e col marito a gestire l'unica fonte di guadagno di tutta la famiglia: la tabaccheria.

L'assassinio

Una mattina del 2015, alcuni uomini si presentano a volto coperto in casa di Fatima e aprono il fuoco. Il marito muore sul colpo, colpito alla testa; il padre, ferito al fianco, prima di morire riesce a farle da scudo col proprio corpo permettendole di scappare dall'uscita sul retro. Dopo una notte trascorsa nascosta nel bagno della vicina moschea, Fatima capisce che in Somalia non c'è futuro per lei né per i suoi figli ora che gli uomini di casa sono morti e la tabaccheria è stata requisita dai terroristi. “Un uomo somalo mi ha organizzato il viaggio verso la Libia – racconta – assicurandomi che avrei potuto viaggiare gratuitamente e che avrei dovuto pagare solo all'arrivo”. Fatima non ha scelta: non ha soldi, non ha un lavoro, non ha più qualcuno che si prenda cura di lei, ma ha tre figli e una madre anziana da sfamare. Nell'ottobre del 2015 inizia la sua odissea: 50 mesi da prigioniera. “Sono partita dal mio Paese una mattina di ottobre con una macchina insieme ad altre persone; dopo una settimana di viaggio siamo arrivati a Nairobi, in Kenya. Ci hanno lasciati in una casa per una settimana; poi, un'altra macchina mi ha portata in Uganda dove sono rimasta per quattro giorni. Il quinto giorno sono stata stipata insieme a tante altre persone su un camion che ci ha portato nelle campagne nel Sud Sudan. Una volta lì siamo stati lasciati in mezzo al nulla per tre giorni completamente senza cibo e solo con dell’acqua. Successivamente, siamo di nuovo saliti sul camion e portati nella città di Giuba [capitale del Sud Sudan], dove sono rimasta una settimana all'interno di una casa dove c’erano decine di persone che dovevano raggiungere la Libia. Da lì, siamo stati portati in un campo dove ad aspettarci c’erano degli uomini libici che ci hanno fatto salire nelle loro macchine, 15 persone per auto ammassate come bestie, che ci hanno accompagnati al confine con la Libia ai piedi di una montagna dove siamo rimasti per qualche giorno, fino a quando altre macchine ci hanno presi e portati in Libia”. Un viaggio di fame e paura che sembra non finire  mai; poi, finalmente, l'arrivo in Libia e la speranza di partire per l'Europa.

I campi di prigionia

Ma l'orrore per Fatima doveva ancora cominciare. In Libia infatti i suoi aguzzini pretendono il “saldo”. “Sono entrata in Libia il 01 gennaio del 2016″, prosegue Fatima. “Qui degli uomini libici mi hanno chiesto 8000 dollari per proseguire il viaggio vero l'Italia. Io ovviamente non avendo quella cifra; per tale motivo, mi hanno rinchiusa insieme a tantissime altre persone in un grande campo recintato controllato da uomini armati. Ogni mattina venivano degli uomini a chiedermi se ero riuscita a procurarmi i soldi chiedendoli ai parenti; io non avevo nessuno da chiamare. Perciò venivo picchiata tutti i giorni con un tubo di gomma. Inoltre, essendo da sola e non avendo un uomo che mi proteggesse, un marito, oltre alle botte tutte le sere venivo presa e violentata dagli aguzzini”. In quello stanzone dove vivevano ammassate circa 400 persone (uomini e donne prigionieri), Fatima incontra un ragazzo suo connazionale. E' vedovo e padre di un bimbo che ha lasciato in Somalia dalla nonna materna. “Sono rimasta chiusa nel campo un anno, durante il quale ho conosciuto il mio attuale marito. Ci siamo sposati lì dentro e da quel momento gli altri uomini non mi hanno più toccata perché ero una donna sposata”. Le botte però proseguono. Un giorno del 2017 arrivano delle persone armate e fanno sgomberare il campo: era scoppiata un'epidemia di tifo. “Quegli uomini – racconta – hanno ucciso tantissime persone. Ho visto il sangue e i loro corpi in terra; per fortuna io, mio marito e altri 10 ragazzi ci siamo salvati (forse perché non eravamo malati) ma siamo stati portati in un'altra prigione, una casa, sempre in Libia. Anche qui mi hanno richiesto gli 8000 dollari; non avendo questi soldi, mi hanno separata da mio marito e dal resto dei ragazzi e mi hanno rinchiusa in una cameretta da sola dove sono stata incatenata al muro con una catena di ferro che mi bloccava la caviglia”. Da sola, legata al muro come un animale, Fatima subisce delle nuove violenze da quello che si auto proclama “il suo nuovo padrone”: “Tutte le sere quell'uomo mi costringeva con la forza ad avere rapporti sessuali con lui, ma io cercavo di oppormi, chiedendogli di avere pietà e ricordandogli che ero una donna sposata. Così lui mi riempiva di botte fino a farmi svenire e poi abusava di me. Una volta, ha torturato mio marito dicendomi che, se mi fossi ribellata ancora, lo avrebbe ucciso”.

A questo punto, Fatima smette di parlarmi e, per la prima volta dall'inizio del suo racconto, piange. Ma poco dopo, con risolutezza, riprende. “L’unica cosa che mi concedeva il mio aguzzino era di telefonare a casa per chiedere soldi; così un giorno ho deciso di chiamare mia madre e di raccontale la situazione. Lei, disperata, non avendo questa cifra ha chiesto aiuto in moschea ed è riuscita a racimolare 2000 dollari; anche gli altri ragazzi detenuti sono riusciti a recuperare dei soldi e mi hanno regalato 100 dollari a testa, 1000 in tutto”. Fatima non riesce a pagare tutti gli 8 mila dollari richiesti, ma grazie all'acconto versato, i guardiani le permettono di uscire nel cortile davanti casa per lavare i vestiti sporchi dei suoi aguzzini. Grazie a questa concessione, insieme agli altri prigionieri, riesce a scappare. Dopo giorni di fuga a piedi, senza acqua né cibo, incontrano un uomo al quale chiedono aiuto. Questi, vedendoli, prova compassione per loro: il primo gesto di umanità dopo tre anni di inferno. L'uomo li accoglie in casa propria, dà loro del cibo e dei vestiti e dopo qualche giorno li accompagna in auto a Tripoli presso l'Agenzia delle nazioni unite per i rifugiati che dà loro ospitalità. “Dopo un mese lì, mi sono accorta di essere incinta, ma non avendo mai avuto rapporti sessuali con mio marito ho capito subito che ero rimasta incinta in una delle tante violenze subite”. Dopo un anno presso l'Unhcr, il 19 dicembre 2018, Fatima e suo marito partono con l’aereo da Tripoli e il giorno stesso atterrano a Roma. Finalmente l'Italia! Dopo 4 anni e due mesi di calvario, l'odissea è terminata. 

In Italia

Oggi Fatima è una donna serena: lei, suo marito e la bambina sono accolti in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII seguiti da operatori e psicologi. Ma le cicatrici rimangono. “Non voglio tornare in Somalia perché gli uomini di Al-Shabaab mi ucciderebbero. Desidero rimanere in Italia perché è un Paese buono che mi ha accolta e aiutata dopo tanta sofferenza. Non dimenticherò mai il bene che l'Italia ci sta offrendo: la possibilità di una seconda vita. Il mio sogno è quello di trovarmi un lavoro e una casa dove vivere con mio marito e tutti i miei figli, compresa la piccolina che adesso ha 8 mesi, e dove potesse raggiungermi anche mia madre”. Un luogo dove ricominciare e, magari, dimenticare l'orrore vissuto per 50 lunghi mesi. L'odissea vissuta da Fatima non è purtroppo un caso isolato: è la storia di migliaia di persone costrette a fuggire dal terrorismo islamico, nella speranza di sopravvivere e ricostruirsi una vita altrove. Una vita libera dall'odio.