“L'eutanasia trasforma il diritto in strumento di autodistruzione”

Ai magistrati, avvocati, notai e docenti universitari che partecipano al quinto convegno nazionale del Centro Studi Rosario Livatino presso il Senato della Repubblica, Papa Francesco ha rivolto questa mattina le sue parole prendendo spunto dalla vita del giovane magistrato Livatino, ucciso della mafia il 21 settembre 1990 e per il quale si è concluso il processo diocesano di beatificazione: “Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo”. 

Crisi del potere giudiziario

Il magistrato Livatino sosteneva che chi amministra la giustizia non è altro che “un dipendente dello Stato al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni”. Il Pontefice prende spunto da quest'affermazione per denunciare, come suggerisce il tema del quinto Convegno, la crisi del potere giudiziario: per Francesco, il giudice siciliano avrebbe anzitempo colto i prodromi di tale mutamento di potere, “i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti […], la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti 'nuovi diritti', con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”.

Contro l'eutanasia

Fra questi desideri disancorati da limiti oggettivi v'è, secondo il Pontefice, quello di incentivare “sentenze che, in tema di diritto alla vita, vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici” che non tengono conto “lo statuto morale di chi è chiamato ad amministrare la giustizia”. Fra tanti esempi, sotto l'occhio di Bergoglio c'è la sentenza della Corte Costituzionale emessa lo scorso 25 settembre, con cui di fatto la Consulta traccia la strada che l'iter del cosiddetto “suicidio assistito” dovrà percorrere. Il caso è quello di Marco Cappato, dell'Associazione Luca Coscioni, che rischiava fino a dodici anni di carcere per aver accompagnato il 40enne tetraplegico Fabiano Antoniani a morire in Svizzera. Per la Corte Costituzionale, chi aiuta al suicidio “una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” non è punibile. Ma la sentenza stabilisce anche che “resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no ad esaudire la richiesta del malato”. 

Il Prof. Gambino: “Il Papa mette il dito nella piaga”

Per il Prof. Alberto Gambino, Presidente di Scienza & Vita e Prorettore Vicario Università Europea di Roma “con il messaggio augurale ai valenti giuristi del Centro studi che ricorda nel nome il giudice Rosario Livatino, Papa Francesco ha messo il dito nella piaga dell'eccessiva creatività di quei magistrati che promuovendo a 'nuovi' diritti taluni bisogni e istanze individualistiche nella materia del fine-vita, finiscono per retrocedere inesorabilmente la missione del sistema sanitario, affievolendo gli obiettivi di curare, lenire il dolore e non abbandonare la persona. Il pensiero – sottolinea Gambino – non può che andare alla recente sentenza della Corte costituzionale che ha aperto una breccia in materia di assistenza al suicidio. Sta ora ai parlamentari e al governo scongiurare la 'deriva dello scarto' nelle condizioni di vita fragile e vulnerabilità, potenziando con vigore e determinazione risorse e investimenti per strutture e reti socio-sanitarie, cure palliative, terapia del dolore e assistenza domiciliare. Papa Francesco – conclude Gambino – ha anche il merito di chiarire con fermezza che la deriva sociale dell'abbandono del paziente attraverso forme eutanasiche – che non hanno alcuna “base giuridica” – è la conseguenza del ribaltamento del ruolo del diritto da presidio fondamentale e funzionale alla vita e al sostegno dell’ammalato, ad arbitrario strumento di autodistruzione“.