“Io, nigeriano, dico sì ai porti chiusi, ma…”

Un’incessante retorica ha abituato parte dell’opinione pubblica a pensare al tema dell’immigrazione in termini duali. Da un lato i poveri, i diseredati, gli sfruttati del Terzo Mondo che bramano tutti di arrivare nella parte del pianeta economicamente più sviluppata. Dall’altro una politica che erige muri o che volge lo sguardo dall’altra parte dinanzi alle tragedie altrui. Ma la realtà, anche in questo campo, sfugge ai cliché. Basta ascoltare una persona che parla del tema dell’immigrazione a ragion veduta per rendersene conto. Edmund Ugwu Agbo è un 50enne nigeriano, professore di Diritto, che vive in Italia sin da quando ha iniziato gli studi universitari. La lettura che dà lui del fenomeno dell’immigrazione è tutt’altro che banale. È favorevole all’accoglienza, certo, ma che sia un’accoglienza vera, in grado di garantire a chi arriva dignità e anche una formazione tale da poterla un giorno offrire al proprio Paese d’origine. Ed è anche favorevole – questo può sorprendere – alla linea del governo italiano di chiudere i porti, tenendoci però a fare delle precisazioni.

L'impegno

Non si può accogliere tutti indiscriminatamente – spiega il prof. Agbo ad In Terris – se non si riesce a fare una politica di integrazione per chi arriva”. La sua idea a tal proposito è chiara: “Bisogna disporre progetti per garantire agli immigrati una formazione di base, di istruzione e lavorativa: sarebbe un modo per permettere loro di integrarsi all’economia locale, ma soprattutto di ottenere le competenze per contribuire allo sviluppo del proprio Paese”. Del resto, non c’è dubbio che molti di coloro che arrivano custodiscono nel cuore il desiderio di tornare in patria e costruirsi un futuro migliore. Lo dimostra la storia di Amoako, che ha trovato spazio sui media, un 19enne che è tornano in Ghana dopo soli due anni di permanenza in Italia. “Di vicende come la sua ce ne sono innumerevoli – racconta Agbo – solo che non ricevono la stessa pubblicità. Tramite la Fondazione che ho creato, l’International Bio-Research, tanti giovani nigeriani hanno potuto conseguire attestati, soprattutto nel campo dell’informatica e dell’agricoltura, e sono poi tornati in patria dove hanno trovato un’occupazione proficua e utile per il nostro Paese”. Ragazzi africani che Agbo aiuta anche attraverso la Steadfast Onlus, organizzazione umanitaria di cui è socio-fondatore.

“Bisogna scoraggiare l'emigrazione”

Questi giovani formati in Italia e che oggi lavorano in Nigeria sono un esempio di emigrazione sana, regolare e fruttuosa. “Le loro esperienze – osserva Agbo – servono anche a far capire a chi intende andarsene che non si ottiene nulla senza sacrifici, che non basta sbarcare in Europa per avere una svolta”. Tanti giovani africani sono disposti a salire su un aereo per venire in Italia a studiare e formarsi, “purtroppo però – commenta Agbo – non sempre sono messi nella condizione di poterlo fare”. Il docente racconta che, nell’ultimo anno, “su mille domande di ragazzi per venire in Italia a studiare, l’ambasciata italiana ne ha bocciate 998”. Ecco allora che tra quelle centinaia di giovani delusi, “tanti hanno scelto di attraversare il deserto, affrontare l’inferno libico e salire sui gommoni, andando così a foraggiare l’immigrazione clandestina e le organizzazioni criminali”. E allora, piuttosto che morire, finire nelle carceri o tra le fila della criminalità, meglio non partire proprio. Ne è convinto anche Agbo, il quale si dice “favorevole alle campagne di alcuni governi e delle conferenze episcopali africani che scoraggiano i giovani ad emigrare”. D’altronde è lo stesso Agbo, con la sua Fondazione, a svolgere fin dal 1996 un lavoro di contrasto all’immigrazione clandestina, alla tratta, allo sfruttamento della prostituzione. “Nel 1999 abbiamo iniziato una collaborazione con lo stesso governo nigeriano, su sollecitazione dell’allora presidente Olusegun Obasanjo”, racconta. E il progetto ha varcato anche i confini della Nigeria, giungendo in Benin, Liberia, Senegal, Ghana, Guinea-Bisseu. “Negli anni abbiamo strappato tanti giovani, maschi e femmine, alla criminalità e abbiamo dato loro un futuro in Africa”, afferma. Futuro che spesso è ostacolato, tuttavia, da problemi endemici. Agbo punta l’indice verso governi stranieri e industrie, colpevoli di “sfruttare la terra e i lavoratori anziché collaborare per lo sviluppo”. Ma non risparmia dure critiche ai governi africani, nei quali “è devastante l’impatto della corruzione”, la quale “spiana la strada allo sfruttamento della nostra terra” e alimenta la forza centrifuga dell’emigrazione.

“Porti chiusi? Positivo, ma…”

Ma per frenare i viaggi della morte organizzati da gruppi criminali, chiudere i porti come ha fatto il governo italiano può essere una soluzione? La risposta di Agbo è affermativa, ma ci tiene a precisare. “I porti chiusi – osserva – mandano un messaggio chiaro in Africa: è inutile mettersi in viaggio, non entrate in contatto con le organizzazioni criminali. È quindi molto importante”. E – aggiunge – “questo messaggio è già stato recepito da chi è coinvolto in certi sporchi affari”. Tuttavia – rileva ancora – “non vorrei che il messaggio dei porti chiusi sia duplice: se da una parte scoraggia la criminalità, dall’altra potrebbe dare un’idea di scarsa umanità, di chiusura brutale”. Per questo, secondo Agbo, è opportuno mantenere pacati i toni del dibattito politico. E, soprattutto, iniziare ad agire per perseguire davvero il bene di tutti i popoli, non annullando le differenze, non producendo nuovi schiavi, ma aiutando lo sviluppo dell’Africa. “Innanzitutto in loco”, come predica e come fa lui da anni.