Giornata per l’accesso all’informazione: il ruolo del giornalista come mediatore

L'Unesco celebra oggi questa giornata che, in questo frangente connotato dalla pandemia, assume ancora più rilevanza. In Terris ne ha parlato con il giornalista e scrittore Riccardo Cristiano

Giornata Internazionale per l'accesso all'informazione (immagine tratta da www.controcampus.it)

La Giornata Internazionale per l’accesso universale all’informazione è stata istituita inizialmente nel 2015 dalla conferenza generale dell’Unesco che ne ha disposto la celebrazione a partire dal 28 settembre 2016. In seguito, vista la sua importanza, è stata proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2019. Questo ha sancito l’importanza del diritto di accesso all’informazione, soprattutto nei momenti di crisi come la pandemia in atto e la crisi afghana, in quanto i cittadini hanno il diritto di essere correttamente informati, sia dai media che dai soggetti pubblici e privati che erogano le informazioni. In Terris, in merito a questa importante tematica, ha intervistato il dottor Riccardo Cristiano, giornalista ed esperto vaticanista dal 2000, fondatore dell’associazione Giornalisti amici di Padre Dall’Oglio, a lungo inviato in Medio Oriente e poi coordinatore dell’informazione religiosa di Radio Rai. Attualmente collabora con il quotidiano La Stampa ed è autore di diversi libri.

L’intervista

-Qual è il significato della Giornata Internazionale per l’accesso universale all’informazione?

“Questa iniziativa, questa giornata, si dimostra molto lungimirante. Ormai il digital divide ha mostrato tutta la sua importanza se si considera per esempio che – per il Covid – 19 – al fine di poter accedere ai vaccini, per ottenere il green pass e per tutte queste questioni che ormai attengono alla salute e alla possibilità di vivere nel contesto sociale e sociosanitario servono la connessione ad Internet, il computer e sono necessari gli strumenti di accesso agli stessi. Quindi, non avere gli strumenti d’accesso, significa essere tagliati fuori dalla salute, dalla società e dalla prevenzione. Tutto questo non è soltanto una questione di democrazia è molto di più: è una questione di vita, di diritto alla sopravvivenza. Le persone anziane e le comunità non connesse, chi vive in aree non connesse o chi ha un’età o una difficoltà digitale vive fuori dalla società. È una questione democratica che si pone in termini ultimativi, se ci si trova in una zona priva di connessione si è fuori dalla società civile, ci si sente fuori dalla civiltà. È una questione molto rilevante e proprio il Covid ha dimostrato quanto sia importante perché chiunque oggi- ad esempio per quanto riguarda il green pass – ha in qualche modo dovuto scaricarlo utilizzando Internet”.

-In che modo la pandemia da Covid-19 ha influenzato l’accesso all’informazione?

“La pandemia ha reso necessario un tipo di comunicazione dell’informazione ma ha reso possibile anche un altro tipo di consapevolezza: ci si è resi conto che esistono delle necessità di comunicare agli altri dove siamo e che cosa facciamo. C’è stata una fase in cui serviva essere tracciati e per fare ciò occorre un sistema di tracciabilità che si è tentato di portare avanti con una app che non è stata molto utilizzata. Questo ha dimostrato un po’ la nostra concezione individualista rispetto alla concezione comunitaria orientale, coreana ad esempio. In Italia, rispetto ad altri paesi come il Giappone e la Corea dove queste forme di controllo sono state possibili dato che parliamo di paesi altamente sviluppati e tecnologizzati dove tutti sono tracciabili, non è stato e non è così perché la tracciabilità è ritenuta una violazione della privacy. Ma anche perché è un qualcosa che in alcune aree non è ancora possibile: ci sono tanti piccoli centri in tante aree dove non si è tracciabili in quanto non c’è ancora stato quel tipo di sviluppo della connessione e poi perché questi dati per noi devono essere assolutamente inaccessibili. Questo perché abbiamo una concezione individualista come base di riferimento, cioè dove i diritti dell’individuo vengono prima dei diritti della comunità. Questo è un po’ un nostro dato e che oggi sta emergendo con i no-vax. Il non vaccinarsi è ritenuto da essi un diritto da esercitare contro il diritto della comunità di tutelarsi tramite il vaccino e anche questa è una questione che il Covid-19 ha fatto emergere e dovremmo riflettere un po’ su come si radicalizzano queste due tendenze, ovvero la tendenza a una visione del tutto comunitaria e una tendenza a una visione del tutto individuale. Mi sembra che entrambi gli estremi siano pericolosi e nel nostro caso dovremmo riflettere sull’individualismo”.

 -In quest’epoca dove spesso si è sottoposti ad una moltitudine di informazioni in che modo i media possono verificarne l’autenticità?

“L’apparente possibilità che si ha in quest’epoca di accedere direttamente alle fonti e all’origine della notizia e quindi di poter saltare la mediazione giornalistica è un’illusione infondata. In realtà l’accesso alle fonti non c’è, nessuno di noi ha l’accesso alla fonte delle stesse; quindi, siamo tutti in balia di possibili fonti vere o false senza poter stabile quali siano veramente quelle vere o false se non torniamo alla mediazione. Per questo il giornalismo deve necessariamente ritrovare il suo ruolo di mediatore tra la notizia e il fruitore della stessa. La mediazione tra la notizia e il pubblico, questo è ciò svolge il giornalismo nel suo ruolo di servizio pubblico. Una funzione pubblica perché svolge una funzione di mediazione tra i due soggetti perché, se si rimane in questa condizione di accesso diretto alla fonte senza mediazione si resta in una fluidità molto pericolosa per cui si può pensare tutto e il contrario di tutto perché si pensa di aver avuto accesso alla fonte dell’informazione ma in realtà non è così.  Per questo, a mio avviso, si deve tornare soprattutto ad informare direttamente dai luoghi e non da dietro un computer, altrimenti noi diventiamo commentatori delle notizie e non raccontiamo gli avvenimenti. Si può fare un commento dopo che si legge una notizia sul New York Times ma, per il resto, è necessario tornare ad avere un rapporto fisico concreto con i luoghi dove si svolgono i fatti, è così che si torna ad avere il ruolo di mediatore delle notizie, ossia essendo presenti nei luoghi dove accadono i fatti. Solo informando su quello che si è visto si torna a svolgere il ruolo di mediatore tra i fatti e i fruitori delle notizie”.

-In che modo i media possono favorire la ricerca della verità e la pace nei contesti difficili come ad esempio l’Afghanistan?

“Scansando le ideologie e anteponendo la realtà. Io credo che questa sia la grande lezione che ci ha dato con questo Pontificato Papa Francesco, ossia che ognuno nel proprio specifico ambito dovrebbe scansare l’ideologia e anteporre la realtà. Il racconto ideologico è un racconto che antepone l’interpretazione del fatto. Quello che va anteposto invece è il fatto, ciò che è reale e concreto, non come noi lo interpretiamo. Il fatto afgano oggi è il ruolo delle donne: il ruolo che, per via almeno di quello che riusciamo a sapere in queste condizioni di informazione molto esile dall’interno, molte di loro rivendicano. Allora questo fatto va anteposto alla nostra interpretazione del fatto. L’’interpretazione è presente ma quello che rimane è il fatto delle donne. Prima si raccontano le scelte di quelle donne poi c’è l’interpretazione che ovviamente è importante. Ogni interpretazione è legittima, dovremmo però anteporre il fatto e cioè quello che viene detto, fatto e quello che realmente si manifesta. Ognuno ha la sua interpretazione che non riguarda soltanto una crisi ma le riguarda tutte e allora dovremmo capire per quale motivo la crisi afghana è stata rimossa per tanti anni e oggi improvvisamente non lo è più. Anche questo lo possiamo interpretare in tanti modi diversi però il fatto c’è; non abbiamo rimosso? Oggi abbiamo forse una sovraesposizione dell’Afghanistan rispetto ad altre realtà, come ad esempio l’Iraq in cui si sta votando con la presenza di 80 osservatori internazionali su tutto il territorio nazionale; davvero si potrà verificare la plausibilità del voto con così pochi osservatori sul territorio? Nel racconto di quella parte di mondo ci sono poi la Siria e il Libano e allora dobbiamo sicuramente fare delle scelte tra le interpretazioni della realtà ma anche delle scelte perché spesso facciamo delle scelte sotto l’onda emotiva tanto che alcuni dati non risultano e altri riemergono improvvisamente. Che cosa ci guida? Ecco, credo che anche questo sia un dato da analizzare per capire se ci sono fatti di realtà o fatti di interpretazione e cioè se ci guida l’ideologia o se ci guidano le emozioni. Penso che non ci debbano guidare né le emozioni né le ideologie ma che ci debbano guidare i fatti nella loro cruda realtà. Oggi, se dovessi essere io a decidere una scaletta anteporrei alcuni fatti ad altri in base a quella che è la mia interpretazione ma, mi sembra strano, che l’interpretazione di tutti coincida sempre nell’attribuire importanza a una notizia piuttosto che a un’altra.  Questa omologazione andrebbe compresa, studiata, analizzata”.