E’ dipendente da psicofarmaci un detenuto su due

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Le benzodiazepine creano più dipendenza del metadone e una pioggia di pillole colorate si riversa tutti i giorni sui detenuti italiani. Abusa di psicofarmaci un detenuto su due: una dipendenza nascosta (più di un terzo sono ansiolitici) e in carcere rischia anche chi entra pulito.  Troppi blister e flaconi circolano per le 206 infermerie degli istituti penitenziari.

Allarme-salute dietro le sbarre

Un dato empirico sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, un problema tanto grave da far denunciare a Francesco Ceraudo, per 40 anni dirigente sanitario dell’ospedale penitenziario Don Bosco e per 25 presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: “Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti”. Dal 2008 la salute dei detenuti è passata dall’amministrazione penitenziaria alle Asl territoriali. Ciò per certi versi è una conquista storica, per altri significa ognun per sé. Un’indagine dell’Agenzia regionale della sanità Toscana che ha coinvolto 57 strutture detentive (il 30% di quelle italiane), cinque regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti. “Nella ricerca spicca un dato: il 46% dei farmaci prescritti sono psicofarmaci – sottolinea La Stampa -. La quasi totalità di questi (95,2%) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici (37,8% del totale) a fare la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d’età 18-29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina”.

Disagio crescente

Il primo disagio psicologico dietro le sbarre riguarda la difficoltà di adattarsi alla vita del recluso. “Il contatto con un ambiente ostile e di privazione delle sessualità provocano alterazioni psicologiche – spiega alla Stampa Ceraudo -. Nel resto d’Europa l’introduzione di “stanze dell’amore” per l’incontro con le compagne ha ridotto violenze e deviazioni sessuali, soprattutto verso giovani e trans”. Non solo: “Molti chiedono qualcosa per dormire perché stanno 19 ore al giorno a letto, non si stancano e quindi non riescono a prendere sonno. Il rumore in carcere è onnipresente, non smette mai, neppure di notte. I detenuti sono così privati anche dei sogni”. L’ingresso in carcere è il trauma originario. I nuovi giunti devono adeguarsi in fretta alle regole di un ambiente che non conoscono, ma non solo.

Diversi tipi di detenzione

La dipendenza dagli psicofarmaci riguarda soprattutto i detenuti comuni. Quelli legati alla criminalità organizzata hanno loro condotte e stili di vita differenti. Seguono codici diversi. Inoltre occorre distinguere tra case circondariali e di reclusione. Nelle prime i detenuti restano poco tempo quindi fanno subito richiesta di psicofarmaci per il disagio del primo impatto con l’ambiente. Nelle case di reclusione, invece, ci sono persone detenute da molti anni che prendono psicofarmaci abitualmente per vincere situazioni di tensione: la loro dipendenza dagli psicofarmaci è più grave perché assumono pillole non per il traumatico impatto con un nuovo ambiente, ma come stile di vita, così non si liberano di questa dipendenza nemmeno quando escono. Pillole da triturare, scambiare, sovradosare.

Adattamento e mercato nero

Non a caso negli ultimi anni le infermerie in carcere preferiscono, dove possibile, la somministrazione in gocce invece che in pillole. Il mercato nero, le overdosi e la pratica del detenuto di nascondere le pillole sotto la lingua hanno fatto nascere addirittura la “terapia a vista” nella quale l’infermiere si accerta che il paziente ingoi effettivamente la pastiglia. Il 50% di detenuti, nella ricerca multicentro mostra una dipendenza da sostanze. “Il 23,7% è entrato in carcere con alle spalle una storia di tossicodipendenza da stupefacenti- sottolinea la Stampa-. Un problema diffuso nelle carceri, accentuato dalla legge Fini-Giovanardi, oggi decaduta, che aveva riempito gli istituti italiani di tossicodipendenti e consumatori. Dipendenza indotta dall’adattamento e precedente abuso di sostanze, ma c’è anche un terzo fattore che spinge la diffusione di psicofarmaci nelle carceri: il controllo da parte della stessa polizia penitenziaria. Costantemente sotto organico e con un problema gestionale dovuto al sovraffollamento, sono gli operatori stessi a incoraggiare l’assunzione di psicofarmaci. Lo attestano tutte le ricerche, inclusa l’indagine sulla salute in cella realizzata nel 2008 da Marina Graziosi ed Elina Lo Voi. È una realtà confermata da ogni operatore penitenziario: dagli educatori ai cappellani. Proprio come accade anche nei centri di identificazione, per esempio Ponte Galeria e Bari.

Drogati di pillole

Tavor e altri sedativi per tenere calma la situazione. Le pillole vengono date solo a chi ha già una prescrizione medica ma è chiaro che le cose non stanno così. Ed è un connubio pericoloso quello tra l’esigenza dei detenuti di spegnere il cervello e quella delle guardie di gestire una moltitudine umana in condizioni di reclusione. “La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti – osserva Ceraudo -. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso. È meglio anche per i medici e gli infermieri che se ne stia tranquillo, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità”. Ma così il carcere diventa una fabbrica di zombie che poi reimmette nella società con una dipendenza non curata. E poi c’è un ulteriore fattore. Forse il più taciuto, sottostimato, inconfessabile, scandaloso. Lo denuncia alla Stampa Gemma Brandi, infaticabile pioniera del campo e fondatrice della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria. “Ritengo che il disordine psicopatologico che porta e riporta taluni in carcere sia decisamente più serio e significativo, per gravità e incidenza, del disagio causato dalla detenzione – afferma – La malattia mentale in carcere è molto più presente di quel che si pensa”. Una considerazione, quella della dottoressa Brandi, che deriva dall’osservazione sul campo, a stretto contatto con le realtà detentive e degli ex ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). “Da anni ci accorgiamo che mentre negli ospedali psichiatrici giudiziari diminuiscono gli internati, dall’altra aumentano in carcere. Un terzo di coloro che escono ce li ritroviamo in istituto penitenziario dopo qualche mese”. Un fenomeno di reistituzionalizzazione che si è accentuato negli ultimi anni, quando il carcere ha perso le sue aspirazioni rieducative per diventare, in una società fortemente consumistica, individualista e neoliberista, il luogo del controllo sociale degli emarginati, siano essi stranieri, tossicodipendenti o folli.

Non bastano gli psicologi

Il carcere, dunque, si trova ad affrontare il problema di una parte della sua popolazione che necessita di una coazione, seppur benigna, di un’altra che di quella coazione non ha bisogno, ma che la ricerca. “Come poteva finire?- si chiede la Stampa -. La risposta è stata quasi esclusivamente farmacologica. Il biperidene (un farmaco antiparkinsoniano con effetti euforici), la quietiapina (un antipsicotico) e il clonazepam (una benzodiazepina che ad alte dosi ha effetti disinibenti) sono diventati la scorciatoia chimica alle contraddizioni del carcere”. L’iper assunzione di farmaci è un fenomeno che si riscontra anche nella società fuori dalle mura penitenziarie, ma dietro le sbarre si è accentuato. L’alternativa, la terapia psichiatrica, è quasi assente. In ogni carcere la copertura medica dello psichiatra è riconosciuta come una necessità, ma il monte ore degli specialisti è di 105.751 ore: per 54 mila detenuti significa meno di due ore all’anno. Entrano in questo gioco perverso anche le case farmaceutiche. Negli ultimi anni in molti farmaci è aumentato il principio attivo a livelli esponenziali. “È un business colossale, sotto traccia, le le Asl – rivela alla Stampa Ceraudo – stipulano accordi con le case farmaceutiche e acquistano i loro prodotti a un prezzo ridotto del 60%”. La mancanza di cartelle cliniche informatizzate impedisce di seguire terapie una volta che il detenuto ritorna alla cosiddetta società civile.

Schiavi della “terapia”

A un certo punto il detenuto, ormai soggiogato, chiede all’infermiere dosi maggiori e pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 260 suicidi e i 6000 casi di autolesionismo che si registrano in media ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, ricercano lo stordimento con il gas dei fornellini, quelli che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni per evitare che, come dice ancora Ceraudo, “su 50 suicidi l’anno, dieci siano involontari e dovuti all’inalazione con un sacchetto infilato in testa”. La società, senza più la maschera della missione rieducativa della pena e scossa dalle istanze populiste, ha abbandonato i suoi figli più problematici. Secondo le associazioni che si occupano dei detenuti, ci sono troppi casi di autolesionismo e troppi suicidi nelle carceri italiane e vengono ancora oggi dimenticate la dignità e la centralità della persona. Così ogni sera, verso le 7, passa il carrello con la “terapia”. Quello che, come cantano i “Presi per caso”, gruppo nato a Rebibbia di cui fa parte anche Salvatore Ferraro, condannato per favoreggiamento nell’omicidio della studentessa universitaria romana Marta Russo, offre “venti gocce che calmano il malumore, ti fanno sentire libero e diventa bello persino questo bordello”.