Caporalato, viaggio nell'inferno dei ghetti

Sulla carta sono chiamati “insediamenti informali”, ma la realtà spesso travalica le denominazioni stesse. Non sono luoghi dignitosi i ghetti e le baraccopoli lucane, dove centinaia di migranti ogni giorno fanno i conti con il contrasto fra il desiderio di riscatto e la realtà drammatica. L'umanità ha un confine nel Metapontino, per esempio, dove l'ex stabilimento industriale La Felandina ha col tempo accumulato uomini e necessità prendendo forma in una baraccopoli senza nome. Dentro questo non-luogo c'era Petty, un sorriso splendente su una pelle ebano che rifletteva tutta la lucentezza della sua Nigeria. La ragazza – perché questo è una 20enne – aveva due bambini nel suo Paese e per loro ogni giorno si alzava per lavorare fino a notte tarda. Poi l'incendio, in una calda giornata d'agosto, ha spazzato via la sua presenza, ed anche il suo nome. Quando un cartello di associazioni della società civile ha chiesto al sindaco del comune di Bernalda il lutto cittadino, il suo netto diniego è stato un implicito appello alla memoria. Ma dopo un mese sono arrivate le ruspe. Sgombero immediato dell'ex Felandina: “Non riesco a dimenticare la sensazione di sconfitta, impotenza e vergogna che ho provato quel giorno. Da un lato le istituzioni, ancora una volta, stavano rispondendo a un’emergenza di dignità con la repressione. Dall’altro alcuni dei miei concittadini sfrecciavano indifferenti sulla SS407 senza accorgersi che, nel frattempo, un nugolo di esseri umani stava disperatamente tentando di salvaguardare gli unici beni rimastigli. C’era chi trasportava un materasso sulla testa, chi trascinava buste e borsoni. Quella dignità umana sublimata dall’articolo 3 della nostra Costituzione pareva essersi perduta tra le camionette e i mezzi dello Stato”. Così scrive Katya Madio, portavoce del Comitato Terre Ioniche, un'associazione del Forum che ha proposto la realizzazione del Forum Terre di Dignità e in prima linea nell'assistenza dei migranti che vivono in quelli che chiama “ghetti”

Katya, cos'è l'ex Felandina?
“Si tratta di un'era industriale a Metaponto dove il comune di Bernalda ha presentato un'ordinanza di sgombero. I ragazzi che ci abitano sono spesso regolari detentori di permessi di soggiorno, e si trovano in loco perché sono lavoratori stagionali”.

Cosa fare come Forum Terre di Dignità?
“Il Forum riunisce diverse realtà della società civile ed offre assistenza ai braccianti. Abbiamo anche alcuni avvocati perché i detentori di permessodi soggiorno per diritto umanitario non entrino nell'illegalità

Il Forum offre assistenza e anche con un gruppo di avvocati. Non esiste più il diritto umanitario. Quindi i ragazzi che hanno il permesso di soggiorno per diritto umanitario, rischiano di entrare nell'illegalità. Quando è stato fatto lo sgombero, i ragazzi avevano come unica sicurezza il materasso sulla testa come loro unico bene. A loro era stato dato un biglietto ferroviario. Ricordo ancora che i ragazzi dicevano: 'Mi hanno dato un biglietto per Roma, io che ci faccio se lavoro qui?'”.

Quale ricordo ha di quei luoghi?
“Innanzitutto li chiamo non-luoghi, perché potresti trovarli ovunque. Quando sono stata nel ghetto, mi ha colpito il modo in cui mi hanno accolto in quella situazione paradossale. Ricordo ancora che hanno trovato il modo di farmi un caffé. Lì ho compreso cosa significa essere umani”.

Quale situazione l'ha colpita?
“Sono due, in realtà. La prima è che pensavo di trovare bambini nel ghetto e non li ho trovati. Ma mi sono saltati all'occhio dei giocattoli che facevano intuire il contrario. E poi la condizione delle donne, le ultime degli ultimi. Molte di loro fanno le braccianti di giorno e si prostituiscono di notte. Difatti, è impressionante su quante ne siano scomparse in poco tempo”.

Cosa pensa sia necessario fare?
“Che le istituzioni diano risposte. Noi, come associazioni laiche e religiose abbiamo fatto tanto, eppure in passato abbiamo rischiato di essere accusati di 'incitamento alla clandestinità' con l'unica 'colpa' di portare a questi uomini coperte e indumenti. Le associazioni laiche e religiose si sono anche messe insieme per poter chiedere al Comune la possibilità di aprire un punto d'acqua nelle prossimità del ghetto, ma le istituzioni hanno detto di no. Purtroppo non è stato l'unico”. 

Lo sguardo di Medici Senza Frontiere

Anche i collaboratori di Medici Senza Frontiere hanno toccato con mano il dramma del caporalato. Dallo scorso luglio hanno offerto consultazioni mediche a circa 900 lavoratori. “Soltanto nell'ex stabile industriale Felandina c'erano 800 persone, 2mila in tutta la Basilicata” ha dichiarato a Interris.it Ahmad al Rousan, coordinatore del progetto di Medici senza Frontiere in Basilicata.

Da quanto tempo eravate presenti nell'area?
“Noi abbiamo iniziato le attività mediche all'inizio di luglio. Abbiamo riscontrato patologie muscolo-scheletriche e gastro-intestinali. La fotografia che abbiamo scattato è che c'è una grande difficoltà di accesso a questi luoghi, essendo il aree rurali e poco accessibili”.

Come si è arrivati a questo punto?
“Sulla base delle nostre informazioni, queste realtà sono effetto degli sgomberi nelle aree urbane e delle uscite dai centri di accoglienza, come Rosarno. Noi non ci siamo addentrati molto al sistema di reclutamento illegale, ma abbiamo visto l'effetto medico delle condizioni lavorative. I braccianti, fra cui molti giovani, hanno un'età media di 33 anni”.

Furlan (Cisl): “Uscire da una gabbia culturale”

Nella lotta al caporalato figura anche la Cisl, che spinge a un rinnovamento non solo sociale, ma anche culturale. Interris.it ne ha parlato con Annamaria Furlan, Segretaria Generale Cisl.

Come vede questa situazione?
“Sono anni che il sindacato, la Cisl in particolare, denuncia la condizione scandalosa ed inaccettabile di sfruttamento e di degrado in cui sono costretti a vivere migliaia di lavoratori immigrati. Abbiamo fatto decine di manifestazioni, scioperi, iniziative pubbliche di denuncia e di sensibilizzazione sul tema questi anni, in tutte le regioni del Sud. Ci siamo battuti con grande determinazione per ottenere una legge severa contro il capolarato”.

È bastato, secondo lei?
“tutto questo non basta. Ci sono almeno 300 mila lavoratori potenziali vittime di capolarato in Italia, centomila dei quali vivono in condizioni disumane, in baracche senza acqua, servizi igienici, con una paga di 20 euro per una giornata intera di lavoro a raccogliere arance e pomodori. C'è un sistema di illegalità diffusa, di emarginazione sociale, di mancato rispetto delle leggi e dei contratti nel silenzio delle istituzioni locali, dell'apparato produttivo e financo delle multinazionali dell'industria agroalimentare che fingono di non veder‭e”.

Dal 2016 c'è una legge che inasprisce le pene per chi commette reati di sfruttamento del lavoro. Perché è difficile arginare questi fenomeni?
“Hanno ragione la Caritas e tutte le altre associazioni a chiedersi: i datori di lavoro sono consapevoli oggi di commettere un abuso sottopagando un migrante? Il Governo Conte, le regioni, gli enti locali, le parti sociali che cosa sono disposti a fare per combattere davvero il capolarato e garantire un alloggio civile a chi oggi vive in condizioni disumane, come è accaduto nel Metapontino? La politica discute e si divide se è giusto o meno fermare o limitare gli sbarchi. Ma nello stesso tempo c'è chi fa profitti sulla pelle di queste persone, usandole come schiavi. Questa è oggi la realtà. Ecco perchè dobbiamo uscire da questa “gabbia” culturale e lavorare insieme per garantire agli immigrati che si trovano e lavorano in Italia permessi di soggiorno, alloggi civili, contratti  e lavori dignitosi. Questo dobbiamo fare e non solo perchè siamo un paese di ex migranti o caricatevole. Ma perchè solo così una parte importante della nostra economia può sopravvivere. Lo diciamo al Presidente del Consiglio Conte: il cambiamento vero parte da qui”.

Le norme oggi mancano di efficacia, secondo lei?
“Bisogna ricordarsi che la dignità di questi lavoratori è la nostra dignità. Se non lo facciamo, il vuoto che lasciamo noi lo riempiono le organizzazioni criminali, con il loro vergognoso ricatto sociale ed economico. Ci siamo battuti per una giusta legge contro il capolarato ma è evidente che non solo non è stata attuata fino in fondo, ma non è sufficiente. Ci rifiutiamo di pensare che una parte della nostra agricoltura si salvi dalla crisi grazie ai braccianti senza diritti e senza le giuste tutele. E questo vale per tutti i lavoratori. Basta con queste nuove schiavitù. In Italia ci sono tante imprese che rispettano regole e contratti e rappresentano le eccellenze del Made in Italy in tutto il mondo. A queste imprese dobbiamo saper guardare per costruire un modello di relazioni dove non ci sia spazio per lo sfruttamento, l'illegalità e la speculazione delle organizzazioni criminali ma solamente per la dignità di lavoratrici e lavoratori, per un mercato del lavoro partecipato, per una reale inclusione sociale”.

Le tutele

L'avvocato Marco Marazza è Professore ordinario di Diritto del lavoro presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore:

Quali sono gli strumenti che abbiamo per contrastare il caporalato in Italia?
“Ci sono diversi tipi di tutele su un piano penale, come il reato previsto dall'art. 603 bis del Codice penale che riguarda coloro che reclutano manodopera e coloro che la utilizzano. Praticamente il caporale può essere condannato se si approfitta dello stato di bisogno della persona e questa è una sanzione estesa anche a chi utilizza la prestazione. Però perché si configuri il reato sono necessari due requisiti”.

Quali?
“Sono lo stato di bisogno e lo sfruttamento. Il primo requisito è facile da individuare in una persona di colore, per esempio, ma è più difficile nel caso di cittadini italiani. In Puglia, per capirci, ci sono stati provvedimenti interessanti che hanno riconosciuto lo stato di bisogno a cittadini italiani con diversi mutui o figli a carico. Il secondo requisito, invece, è lo sfruttamento: si manifesta se la corresponsione di compensi è palesemente difforme dai contratti collettivi oppure nel caso di violazione della disciplina dell'orario di lavoro”. 

Perché, nonostante le leggi, gli episodi di caporalato sono ancora frequenti?
“Probabilmente, c'è un problema di presidio del territorio. Ma oltre alla sanzione penale, la legge ha anche una tutela di carattere civile perché, in caso di caporalato, consente al lavoratore di rivendicare l'esistenza di un contratto di lavoro al proprietario. Si tratta di una forma di tutela che richiederebbe un maggior presidio del sindacato”.