Camerun: quei bambini costretti a vivere in cella

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Camerun in subbuglio. Ripetute le denunce da parte dell'opposizione sulle violenze perpetrate nelle zone anglofone da parte di esercito e polizia: “Ogni giorno, che passa, muore un innocente. Le case vengono rase al suolo senza riguardo per la vita e la dignità umana, le donne violentate e i granai  ridotti in cenere”. E poi una lunga schiera di preti, religiose – da ultimo nel giugno 2017 l'Arcivescovo di Bafiaassassinati dal 1988 ad oggi. In questo clima di diffidenza e repressione, nella crisi tra Camerun francofono e quello anglofono – che come la Catalogna in Spagna sta cercando di rendersi indipendente – peggiorata dalla presenza nel nord di frange del gruppo terroristico Boko Haram, i media dimenticano di raccontare l'impegno certosino di chi ha scelto di stare al fianco dei più piccoli per ricostruire il futuro. In Terris ne parla in occasione della Giornata Mondiale dell'Africa

Un esempio vitruoso è il Coe (Centro Orientamento educativo) che da oltre vent'anni è a contatto con la realtà carceraria del Paese, e che ha recentemente denunciato il numero raddoppiato di detenuti nel 2017, rispetto ai posti disponibili nei 123 istituti penitenziari del Camerun. Cento persone in celle da 25 posti, in condizioni igieniche disumane e con un solo pasto servito al giorno (un po’ di riso o polenta di manioca). Minori che vivono nelle celle con gli adulti e persino bambini, figli di detenute, che si trovano nelle stesse celle con le madri. I più fortunati che possono pagare hanno una brandina, altri dormono accalcati su letti a castelli. Tanti per terra. O anche all'aperto.

Collabora col Coe, la Comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi che quest'anno compie 50 anni di vita. Mauro Cavicchioli, toscano di origine, 40 anni di casa-famiglia alle spalle, in Camerun dal 2014, cerca di occuparsi in particolare dei più piccoli rinchiusi in carcere. Tra questi c'è F., il primo ragazzino accolto a 13 anni, ormai diventato il pilastro della casa di accoglienza di Bafoussam nell'ovest del Paese. Rimasto orfano da piccolo, ha conosciuto solo la vita di strada e poi il carcere. “Disabile mentale per una meningite cerebrale contratta a tre anni – racconta Cavicchioli – è stato usato da una banda per un furto. Quando è arrivata la polizia, gli altri sono scappati e lui è stato arrestato. Ha trascorso in carcere più di due anni, mentre i volontari cercavano di far capire ai giudici che il suo ritardo mentale lo rendeva di fatto innocente. È lui che ha dato il “la” a tutto il cammino nonostante le fatiche di accudirlo: non mangiava, non parlava, era pieno di scabbia… F. smuove le coscienze, fuori da qui non avrebbe avuto futuro. Già in passato per i suoi furti aveva rischiato di essere bruciato vivo…”.

Ma chi sono i minori che finiscono nelle carceri camerunensi e come mai cadono nella “malavita” facilmente?

“I detenuti che incontriamo nelle carceri del Camerun sono in maggioranza giovani, anche piccoli di 12, 13 anni, nell'80% dei casi finiti dentro per aver rubato una gallina, un pezzo di pane, una bibita, per fame…  E devono aspettare anni solo per parlare con un giudice…  Ci sono infatti migliaia di ragazzini dai 12 ai 18 anni  la cui famiglia non ha potuto rispondere in modo adeguato alla loro crescita, perché i figli sono tanti oppure perché la figura paterna vive la poligamia. Spesso nella storia di questi ragazzi il padre è morto oppure la famiglia va a scatafascio perché lui non riesce a gestire le 3 – 4 mogli. Siccome non hanno i genitori uniti, non si sentono voluti bene, vengono picchiati, scappano dalle campagne, attratti dalla città per cercare un modo per sopravvivere. Sono abbandonati a loro stessi, vivono sulla strada. Non è propriamente un problema di povertà ma di profonda crisi della struttura familiare. Inoltre quando uno di loro va a rubare, se il comandante del nucleo di polizia è un padre di famiglia ed è sensibile, lo chiude nella cella del posto di guardia, chiama la famiglia e verifica chi sono i genitori. Ma spesso la famiglia deve dare soldi ai poliziotti. Per esempio in questi giorni, per liberare il fratello di uno dei nostri, la polizia ha chiesto 200mila franchi (340 euro). Non avendo questa cifra che equivale a circa 4 – 5 stupendi, andrà in prigione e starà in carcere almeno per tre anni. Ogni giorno visitiamo i detenuti – siamo presenti in 5 carceri – ed è difficile trovare ragazzini che sappiano leggere e scrivere e che hanno ricevuto un'educazione in famiglia. Ci sono carceri da 400 persone con un cortile unico di 30 metri x 15 e intorno le celle da 40 – 50 persone. Noi riusciamo ad entrare e girare liberamente per instaurare un dialogo. In questo mondo disumano, alla sera vieni chiuso dentro alla cella e alla mattina si riapre. Se devi fare la pipì di notte hai un secchio a disposizione ma devi pagare una quota al detenuto che ha acquistato il secchio…  se vuoi dormire su un letto devi avere un materasso e pagare una quota… Insomma se non hai fuori il sostegno economico della famiglia, senza soldi dormi per terra dove fai anche i tuoi bisogni… Anche i giudici spesso sono corrotti, la pratica resta ferma se non porti dei soldi, i processi richiedono anni e nei carceri il minore peggiora, subisce violenze… Vede e impara di tutto”.

Ma quando usciranno, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha una proposta per loro coi due centri educativi di Bafoussam e Soukpen…

“Siccome non ci sono progetti di uscita e reinserimento nel sistema carcerario camerunense, stiamo accompagnando in un percorso personale di recupero e riabilitazione gli ex detenuti nei nostri Centri educativi.  Si tratta di una ventina di ragazzi che usciti dal carcere ci hanno chiesto aiuto in modo autonomo. Nella casa di accoglienza di Bafoussam – che è una città di  400.000 abitanti – abbiamo la prima fase in cui, attraverso un percorso pre-educativo, lavoriamo sulle qualità delle relazioni tra le persone. Oltre agli operatori, c'è anche un bel gruppo di volontari del posto che si stanno impegnando nelle due comunità. Un esempio significativo dell'impatto di queste realtà di accoglienza sul territorio e sulla gente che ci conosce: una coppia camerunense in cui lui è specializzato nel disagio degli adolescenti e le problematiche, con una grande capacità di equilibrio, collaborano da un anno con noi e sono un aiuto prezioso. La seconda fase è invece nella foresta, nella fattoria a Soukpen che ha grandi spazi, dove i ragazzi sviluppano maggiormente l'esperienza produttiva, con l'allevamento del bestiame per esempio. L'accompagnamento in questo programma di recupero dura 3 anni. L'obiettivo è il reinserimento sociale: siamo gli unici che facciamo questa proposta perché più frequenti sono le organizzazioni che portano da mangiare in carcere ma niente più… Creare rapporti per costruire un futuro alla persona non è facile… L'obiettivo a lungo termine è quello di creare un modello di carcere comunità – come in Italia il Cec (comunità educativa per carcerati) – che abbassi la recidiva del 10%”. 

Qual è il programma giornaliero che proponete per il loro reinserimento sociale e lavorativo?

“Il nostro programma non è affatto facile: a molti di questi giovani all'inizio sembra di venire di nuovo in un carcere. Non possono avere il cellulare, non possono uscire. Nella prima fase sono impegnati tre educatori e tre caschi bianchi – volontari in servizio civile  internazionale. Ci alziamo alle 5.30, andiamo a messa e ci fermiamo a riflettere sul Vangelo. Poi svolgiamo i lavori di casa e facciamo colazione. Oltre alle pulizie, si svolgono piccoli lavori di falegnameria e ognuno porta avanti un percorso di formazione scolastica e umana. Alle 19.30 ceniamo e alle 21 facciamo un resoconto della giornata. Cerchiamo di avere sempre momenti della giornata molto scanditi da impegni in modo che i ragazzi non abbiano troppo tempo per riflettere da soli sulle proprie ferite, le sofferenze, i ricordi… c'è qualcosa di misterioso in questa condivisione anche perché si tratta di ragazzi molto rispettosi. Nella seconda fase, abbiamo a disposizione 50 ettari di terreno  nel Centro educativo di Soukpen: una sperduta e vastissima azienda agricola a 35 chilometri di distanza da Boufassam, con campi coltivati a mais e ortaggi e piccoli allevamenti di maiali, polli, capre e api per arrivare all’autosufficienza economica. Qui i giovani vengono avviati a un percorso di formazione sulle tecniche agricole e di allevamento che gli permetta poi di trovare un lavoro. Ma il nostro sogno, attraverso il progetto Mai più minori in carcere, è quello di ampliare questo Centro educativo con una cucina, un forno, recinti per le capre”.

Ci sono organizzazioni che collaborano con voi per la tutela dei diritti dell'adolescenza? E la Chiesa locale? 

“L'origine di questo progetto viene dalla richiesta di una missionaria  Maria Negretto, che vive qui da 40 anni. Noi abbiamo continuato questa esperienza di incontro coi detenuti, in collaborazione con il Coe, che ha progetti di umanizzazione e tutela dei diritti per minori e detenuti nei carceri di Garoua, Bafoussam, Douala, Yaoundé e Mbalmayo e anche insieme ai servizi sociali locali (uffici regionali e distrettuali). Alcune assistenti sociali sono già venute a vedere la nostra casa d'accoglienza… Abbiamo comunque un sostegno importante anche dall'estero: da numerose parrocchie italiane, dalla Regione Emilia-Romagna, dalla diocesi di Rimini, dal governo italiano. Qui in Camerun molta gente – anche all'interno della Chiesa – fatica a comprendere perché viviamo insieme a questi adolescenti che sono usciti dal carcere, anche se i rapporti sono buoni con tutti. C'è ancora un concetto di assistenzialismo, di aiuto basilare cioè di dare da mangiare. Il Vescovo ausiliare tuttavia, quando è venuto in Italia e ha visto di persona le nostre case di accoglienza, ha capito chi siamo. Alcuni pensano addirittura che siamo matti perché il furto qui è comunque un reato grave e la persona può essere uccisa. Quando non siamo considerati matti, siamo considerati corrotti perché nella mentalità diffusa gli europei sono in Camerun per guadagnare soldi, dietro alla maschera della cooperazione. A volte i guardiani stessi nei carceri ci insultano perché sostengono che i banditi vanno puniti e non aiutati. Alcuni direttori lasciano entrare nei carceri senza alcun problema, credo che pensino che prima o poi riceveranno soldi da queste organizzazioni. Per questo stiamo molto attenti ad ogni passo visto il livello di corruzione molto alto. Condividere la vita direttamente con chi è stato 'scartato' e cercare insieme vie di sussistenza, con l'allevamento e l'agricoltura di certo allontana molti dubbi. Quindi quasi meglio che ci considerino 'matti'”.