Allarme povertà: boom di working poor. Già prima della pandemia, il “lavoro povero” (con meno di 9 euro all’ora) riguardava quasi 3 milioni di occupati. Di cui il 53,3% era rappresentato da uomini e il 46,7% da donne. Si trattava, attesta il Censis, di oltre un milione di lavoratori giovani (con meno di 30 anni). E di 1,4 milioni con un’età tra i 30 e i 49 anni. Il 79% apparteneva alla categoria degli operai (2,3 milioni). E il 12,3% a quella degli impiegati.
Crisi Covid e povertà
Per effetto della crisi Covid, il 5,5% delle famiglie ha visto ridursi il reddito di più del 50% rispetto a prima della pandemia. Il 9,1% ha dichiarato una riduzione tra il 25%. E il 50%, il 16% una riduzione inferiore al 25%. Il 43,2% dei lavoratori autonomi ha dichiarato invariato il proprio reddito rispetto a prima della pandemia. Contro il 66,5% dei lavoratori dipendenti. Se si sommano le famiglie che hanno comunque riscontrato una perdita di reddito, quelle dei lavoratori dipendenti raggiungono il 27,9%. Ma la percentuale raddoppia tra quelle dei lavoratori autonomi (54,7%). In media, 3 famiglie su 10 hanno subito una riduzione del reddito.
Il problema del lavoro autonomo
La rarefazione delle opportunità di crescita ha avuto un riflesso immediato sull’occupazione indipendente. Nel periodo 2015-2020 la riduzione del lavoro indipendente arriva a mezzo milione. Mentre nello stesso periodo l’occupazione in generale aumentava di 306.000 unità. L’anno del Covid ha condizionato fortemente l’andamento del lavoro indipendente, determinando una riduzione complessiva di 158.000 occupati. Di cui 59.000 lavoratori autonomi e 38.000 liberi professionisti.
I rischi dello smart working
Un’indagine del Censis ha misurato i maggiori rischi associati allo smart working. Innanzitutto, la perdita di socialità garantita dal rapporto diretto e quotidiano con il colleghi (48,8% dei lavoratori intervistati). Poi il fatto di dover lavorare in un contesto inadeguato. In termini di disponibilità di spazio e di dotazioni (40,4%). Il pericolo di lavorare più a lungo dell’orario previsto. E di non poter più controllare il confine tra lavoro e non lavoro (36,3%). L’assunzione dei costi legati alla connessione e ad altri servizi che la postazione di lavoro richiede (29,7%). Le minori opportunità di crescita professionale e di carriera (22,0%).
Povertà e lavoro
Il “lavoro povero“, secondo la definizione della Treccani, è l’occupazione remunerata con un salario insufficiente. Talmente modesto che non permette di superare la soglia di povertà. Spiega l’ex leader sindacale ed europarlamentare Sergio Cofferati: “Occorre rompere il circolo vizioso della povertà. Nel fenomeno del lavoro povero rientrano quelle forme di attività remunerate che non consentono a un individuo (soprattutto donne) di uscire dalla soglia di povertà”.
Mercato del lavoro
La radice va ricercata nella composizione del nuovo mercato del lavoro. Negli ultimi anni, infatti, l’incremento delle forze di lavoro è per larga parte dovuto all’aumento del lavoro indipendente. In forma di impresa individuale o di “prestazione” singola. E, quindi, risulta essere molto fragile. Si tratta di un lavoro “povero”. Occupazione che non crea valore aggiunto. Lavoratori precari, a termine. Un universo di lavori poveri, insicuri. A bassa considerazione sociale. E riguarda milioni di italiani.