Povertà digitale: un fenomeno in crescita

Un vaso di Pandora scoperchiato dalla pandemia. Le conseguenze e le ripercussioni che potrebbe avere questo fenomeno

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La “povertà digitale”, consistente nella privazione di dispositivi, competenze e opportunità informatiche, ha conosciuto il suo apice, in Italia e in molti altri Paesi, in seguito alla pandemia e alla conseguente didattica a distanza (DAD). Coinvolge bambini, ragazzi nonché adulti e anziani, nonostante si abbia l’impressione, distorta dal grande utilizzo del telefono cellulare, che tutti siano dotati dei necessari dispositivi. Interessa la scuola, il lavoro, la possibilità di accedere a molti servizi (banca, certificati, acquisti) e i rapporti sociali.

Insieme a quello economico, energetico, culturale si aggiunge il divario digitale. La situazione è esplosa nel 2020, nel momento in cui molti studenti si sono trovati estromessi. La discriminazione è stata palese. La nuova esclusione sociale (anche agli occhi degli altri studenti) ha contribuito a un’ulteriore disaffezione alla scuola e alla DAD. Alla prima fase di scarsa disponibilità e disagio per la mancanza dei dispositivi in dotazione alle famiglie (e di competenze informatiche specifiche), si è parzialmente risolto grazie a dei provvedimenti specifici che autorizzavano le scuole a fornirli in comodato d’uso gratuito. Altre sovvenzioni sono state previste dai singoli Comuni per esigenze specifiche della comunità cittadina. Il ministero dell’Istruzione ricorda i bonus previsti ora dal Governo, tra cui quelli per internet, telefono, pc e tablet.

La disparità, nelle sue sfaccettature, è figlia del tempo e, al giorno d’oggi, si mostra nella sua veste più capillare e diffusa: quella della tecnologia, dei dispositivi digitali. Non essere al passo in questo settore, significa la bollatura sociale, la difficoltà, soprattutto per i giovani, di essere esclusi dai social, l’essere “fuori”. Questa sorta di esclusione postmoderna è distruttiva e provoca gravi ripercussioni psicologiche negli individui coinvolti. In più, c’è la difficoltà pratica di poter essere al passo con la didattica a distanza.

La pandemia ha scoperchiato il vaso, ha posto in luce, in maniera immediata e senz’appello, il ritardo degli italiani (in particolare degli studenti) nei confronti degli altri cittadini europei, nel possesso di connessioni valide, strumenti sufficienti e, di conseguenza, una buona competenza nel settore. Negli anni precedenti al Coronavirus, la situazione di arretratezza era stata sottovalutata.

La disponibilità di computer non è così diffusa come si possa credere (prima dell’arrivo del Coronavirus, un alunno su 7 non disponeva di un pc in casa). Le disparità sociali sono variegate ed è sufficiente una variabile alterata perché si generi una “diversità” mal digerita da chi la subisce e fonte di dileggio da parte di chi non è coinvolto. Santa Teresa di Calcutta ricordava “Molti parlano dei poveri, ma pochi parlano con i poveri”.

L’esclusione sociale che ne deriva, riguarda varie fasce di età e, se colpisce i giovanissimi ha, poi, ripercussioni nell’approccio al mondo lavorativo, nel successivo sviluppo professionale; rischia di tagliar fuori, nell’ambito di uno stesso Paese o fra Paesi diversi, quegli individui penalizzati dall’impossibilità pratica di essere al pari con gli altri.

Si evidenzia, soprattutto in questo aspetto professionale, una disparità digitale di genere (nel contesto, quindi, di uomo o donna), generazionale (fra individui di età diverse) o di tipo etnico e culturale (riguardo allo Stato di provenienza).

Il volume dal titolo “L’ultima ideologia”, con sottotitolo “Breve storia della rivoluzione digitale”, scritto da Gabriele Balbi (professore associato presso l’USI, Università della Svizzera italiana di Lugano) è stato pubblicato lo scorso 17 febbraio da Laterza; il testo approfondisce il quesito che si pone tra le nuove frontiere del web, in materia di opportunità e del loro pieno esercizio, al confronto con la dura realtà e la sopravvivenza, seppur con nuove regole, di dogmi, illusioni e santoni, di vecchie barriere e disparità sociali.

L’analfabetismo digitale è sempre in agguato poiché concerne un campo di innovazione continua, in cui la competenza può divenire transitoria. Non tutti sono tenuti a divenire esperti informatici, tuttavia, la rete dei servizi e del commercio è sempre più lontana dai classici sistemi cartacei e obbliga a divincolarsi in nuovi ambiti, a partire a esempio, dall’utilizzo dello SPID per un semplice rinnovo (solo per via informatica) di una carta di identità o per le pratiche con l’INPS.

Lo scorso 13 dicembre, Agenda digitale (testata di riferimento per tematiche riguardanti il Digitale e la Pubblica Amministrazione) al link https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/digital-divide-quanti-sono-in-italia-gli-esclusi-dal-digitale/, ha indicato i numeri del fenomenoSecondo l’ultimo rapporto Auditel-Censis, circa 14 milioni di utenti o non accedono alla rete o lo fanno in maniera discontinua e con una connessione di bassa qualità. Solo il 59,4% dispone di una connessione sia domestica, sia mobile: oltre 14 milioni di famiglie, cresciute del 6,2% dal 2019 ad oggi. Il problema è che 2,3 milioni di famiglie italiane non sono connesse a Internet in nessun modo, il 10% circa del totale; mentre un altro 30%, cioè 7,2 milioni di famiglie, si collegano solo via smartphone. In tempi di pandemia, di restrizioni e blocchi, non avere a disposizione le tecnologie giuste o non essere nelle condizioni di usarle significa rimanere ai margini. Stando ai dati: 8,4 milioni di famiglie, il 35,1% del totale, non ha a casa né un pc, né un tablet (73% delle famiglie di livello socioeconomico più basso). […] Se ci si focalizza sulle famiglie di soli anziani, ovvero di quelle composte da persone di 65 anni e più, ben il 67,4% di loro non sa usare Internet (Istat 2020) […] Dall’altro lato della scala generazionale, anche la DAD, protagonista della vita degli studenti nell’ultimo anno e mezzo, ha sottolineato la persistenza di gravi disuguaglianze socio-economiche: il rapporto BES Istat 2021, ad esempio, ha ben evidenziato come l’8% degli alunni, perlopiù di famiglie svantaggiate, sia rimasto escluso dalle attività scolastiche nel corso della pandemia Covid-19; un dato che sale al 23% se si considerano gli studenti disabili”.

Il paradosso è che i giovani, definiti “nativi digitali” e “millennials” per la loro contemporaneità cronologica con tale tecnologia, non abbiano, in alcuni casi, la possibilità concreta di poter esprimere questo valore aggiunto.

La “vita digitale” ha bisogno, come per la vita reale, delle condizioni che realizzino le giuste opportunità, per tutti, di poter accedere ai mezzi tecnologici, sviluppando, così, la propria competenza digitale (che non discende in modo automatico e naturale dall’essere nativi digitali) e di essere al passo con gli altri, anche a livello internazionale.

La competenza a rischio è quella di carattere propriamente informatico, per la quale è necessario possedere un tablet o un computer e saper effettuare operazioni comuni nella gestione delle risorse, quali la condivisione di file e la scansione di documenti. La grande dimestichezza sui social, possibile grazie a una maggior diffusione del telefono cellulare, potrebbe contrastare con una scarsa dimestichezza verso l’informatica vera e propria, riferita ad hardware e software.

L’uguaglianza si ottiene soprattutto a livello educativo, nel predisporre le stesse opportunità per tutti, abbattendo le barriere economiche che, purtroppo, senza un intervento di sostegno istituzionale, rischiano di aumentare la forbice educativa sin dall’infanzia. L’auspicabile termine dell’esperienza di DAD non dovrà far dimenticare le problematiche attuali e dovrà essere di monito affinché si massimizzi, verso tutti, quel rapporto con il digitale che pure rimarrà a supporto degli allievi, in linea con un mondo tecnologico in continua evoluzione.

La povertà non arretra e riveste altre forme, intaccando sempre più la personalità, la libertà e il diritto di vivere una vita decente, senza diseguaglianze di sorta.

Nel passato, si è parlato, efficacemente, con locuzioni molto dirette, di “emarginazione digitale” e di “digital divide” (divario digitale), per ribadire quanto il mancato accesso da parte di singoli, di gruppi, di ceti, possa creare delle nuove disparità sociali o acuire quelle già presenti, sino a sconfinare in un’“apartheid digitale”. La questione ha riguardato e ancora oggi interessa i Paesi più poveri (dove l’acquisto di un computer è un lusso), condannati a una rincorsa sempre più difficile nei riguardi del mondo occidentale. Per questi Paesi “ultimi”, piegati ed esclusi dai bisogni primari, si aggiunge anche il venir meno di una speranza di rilancio (o di rimanere in corsa), poiché le conseguenze di disparità informatica finiscono per avere ripercussioni in tutti i settori, aumentando la povertà assoluta.