Popoli indigeni, allarme coronavirus: la minaccia nel cuore della foresta

La pandemia in Sud America ha colpito con forza. E le mancate azioni di tutela per le popolazioni indigene rischia di creare una sacca di sofferenza in grado di minacciare la sopravvivenza dell'ambiente

Probabilmente in pochi hanno avuto a che fare con il termine Yanomami. Un nome, sì. E niente che, nella sua musicalità quasi orientale, lasci trasparire la sua appartenenza latinoamericana. Perché di questo si tratta: di un nome a tutti gli effetti, incastonato come una pietra secolare nel cuore della foresta pluviale dell’Amazzonia, giusto al confine fra il Brasile e il Venezuela. Gli Yanomami sono uno di quei popoli indigeni dei quali l’opinione pubblica generale sa poco. Forse nulla. Guardiani ancestrali della foresta, forse sì di origine asiatica, chissà come finiti per stanziarsi in uno dei luoghi più fecondi di vegetazione del pianeta intero. Erbe, piante e alberi che rappresentano l’impalcatura della quotidianità yanomami, custodi ma anche beneficiari di quel che il territorio offre loro. Molto, se visto con gli occhi di chi il sottobosco lo ha sempre vissuto dal di dentro.

Il lato oscuro del conservazionismo

Gli Yanomami sono solo una delle popolazioni indigene che, ancora oggi, si barcamenano fra la preservazione della loro integrità sociale e l’avvento del nuovo colonialismo. Il quale, di quella foresta non vede la stessa tonalità di verde. E’ una questione di equilibrio sottile, fragile quanto la natura stessa, talmente delicato che, a ben vedere, la sua soglia di resistenza è stata già da tempo superata. Colpa di un sistema di sviluppo che amplia il proprio raggio d’azione dimenticando quanto la tutela delle popolazioni indigene vada inclusa in quella dell’ambiente. In Amazzonia la questione riguarda l’invasività dei minatori illegali, dei taglialegna avallati da politiche che restringono il territorio autoctono proporzionalmente all’avanzamento di una deforestazione che riguarda ormai 3.069,57 chilometri quadrati di territorio. In Africa accade forse quasi di peggio, con l’applicazione di un conservazionismo che punta alla tutela del territorio limitando però la mobilità e l’interazione uomo-foresta dei popoli che lo abitano.

Coronavirus e popoli indigeni

Va da sé che, in un contesto simile, l’impatto del coronavirus non abbia solo messo in evidenza la fragilità immunologica delle popolazioni indigene, ma anche della tenuta antropologica del territorio. In una fase in cui la collisione con la pandemia, soprattutto in America latina, fa davvero paura: “A partire dal 6 luglio sono stati segnalati oltre 70 mila casi di Covid-19 tra le popolazioni indigene delle Americhe e oltre duemila morti”. Parola dell’Organizzazione mondiale della Sanità, per quello che è di fatto uno dei primi allarmi ufficiali: “Sebbene Covid-19 sia un rischio per tutte le popolazioni indigene a livello globale, l’Oms è profondamente preoccupato per l’impatto del virus sulle popolazioni indigene nelle Americhe, che rimane l’attuale epicentro della pandemia”.

Allarme rosso

Nessuna sorpresa. L’Oms manifesta preoccupazione alla luce di popolazioni indigene che, spesso, hanno “un elevato carico di povertà, disoccupazione, malnutrizione e malattie trasmissibili e non trasmissibili”. Il che, naturalmente, “le rende più vulnerabili a Covid-19 e ai suoi gravi esiti”. Il punto, però, non riguarda solo l’impatto del virus, quanto le azioni pregresse che, in qualche modo, hanno predisposto indirettamente la progressione del coronavirus fino al cuore delle foreste. Niente di strano che, a più riprese, sia stato utilizzato il termine “genocidio”. L’ultima volta, per voce di Sonia Guajajara, coordinatrice di Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib): “L’accelerazione dei decessi è molto preoccupante, qualcosa che attribuiamo alla mancanza di pianificazione da parte del governo federale, che fino ad ora ha attuato solo misure insufficienti”.

Politiche tardive

Il rischio, è che gli strascichi dell’emergenza coronavirus lascino un segno troppo marcato per poter essere cancellato per centinaia di migliaia di persone. Tutte rientranti nel novero dei popoli indigeni, i quali rischiano di essere tagliati fuori non solo dai propri ambienti ancestrali, ma anche dalle cure necessarie. Un deficit che Apib attribuisce alle strategie amministrative del presidente Jair Bolsonaro per quel che riguarda i territori rientranti nei confini del Brasile. Larga parte, naturalmente. Così come al leader brasiliano viene attribuita la responsabilità di aver posto il veto su un disegno di legge a tutela delle popolazioni indigene. Lasciando aperta la porta alla pandemia e a tutto ciò che c’era prima, nonostante l’ammissione da parte dello staff presidenziale di un atteggiamento approssimativo sulla preservazione dei popoli autoctoni. In ballo, c’è il futuro di 305 comunità e 900 mila persone in tutto. E, naturalmente, delle loro foreste.