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Da “Mare fuori” ai progetti per il futuro: l’intervista a Giacomo Giorgio

Sono ormai milioni i fan di Mare Fuori, la serie di Rai 2 che ha avuto ottimo successo anche su Raiplay e Netflix, ambientata a Napoli. Vero fenomeno di costume, Mare Fuori ha trasformato in veri e propri divi soprattutto i giovani protagonisti accanto ai volti più noti come Carmine Recano, Carolina Crescentini, Anna Ammirati.

Tra loro c’è una giovane promessa della lunga serialità: Giacomo Giorgio, che interpreta Ciro. «Sono molto felice ed anche molto emozionato» racconta parlando del momento che sta vivendo. Insieme al resto del cast è stato ospite al Festival di Sanremo: «Per me è stata una rivalsa e al tempo stesso un premio essere stato su uno dei palchi più importanti del mondo».

Mare Fuori è un prodotto napoletano ormai di respiro internazionale. Cosa si prova ad essere un attore molto amato dal pubblico?

«L’affetto del pubblico è davvero commovente. Ovunque andiamo è sempre così. È capitato anche a Sanremo. Questa ormai è la nostra routine e questo vuol dire che abbiamo fatto qualcosa di davvero molto buono. Il linguaggio di Mare Fuori ormai viene compreso in tutto il mondo. Si raccontano storie di ragazzi difficili attraverso gli adulti, non c’è un’apologia della camorra o del male, ma c’è il tentativo di raccontare questi ragazzi come se fossero uno specchio degli adulti. Ovviamente senza giustificare le loro azioni sbagliate, ma anche senza giustiziarle. Credo che questo messaggio ed in più l’unione, inteso come gruppo, che traspare, sia stata la magia, la formula vincente per la serie».

Quanta umanità di Ciro c’è in Giacomo e quanto di Giacomo in Ciro?

«È molto difficile stabilire quando si interpreta un personaggio quanto c’è di proprio. Sicuramente Ciro è un personaggio molto lontano da me. Però per raccontare quella cattiveria ho dovuto fare i conti con la mia cattiveria, ed ho dovuto scovare delle chiavi dentro di me che ancora non avevo scoperto. Forse anche conoscermi meglio. Ci sono delle cause che ti fanno diventare come sei. Ciro è il più cattivo di tutti probabilmente perché è il più debole e fragile di tutti. È quello più prigioniero. Ho scoperto che la parola cattivo, in latino deriva da captivus che significa “prigioniero”. Questo aspetto mi ha spostato l’ottica, ed è stato molto interessante ed un’opportunità incredibile poiché sin da piccolo sognavo di interpretare un cattivo. Non sapevo però quando sarebbe stato il momento. Mi sono divertito molto anche se, ammetto, non è stato facile».

Ricorda la prima emozione provata grazie a Mare Fuori?

«Si facevano i provini per questa serie. Il ruolo di Ciro Ricci è stato provato da 2500 ragazzi. Ero disincantato. È accaduto tutto nel giro di pochissimo, fin quando non ho conosciuto il regista della prima stagione Carmine Elia, con il quale ho avuto subito una sintonia. Poi mi arrivò la telefonata dal mio agente che mi ha comunicato che ero stato preso e la mia prima reazione è stata quella di andare in lacrime da mia madre e dai miei nonni per dire loro che ce l’avevo fatta. L’inizio delle riprese è partito con una scena, in cui Ciro uccide il suo migliore amico che l’aveva tradito e perché il padre gli aveva detto che era arrivato il momento e la serie finisce con la morte di Ciro che torna bambino. Torna quell’umanità che gli fa dire “io non voglio morire”».

Questo successo è stato totalmente inaspettato?

«Sono sincero: sì, è stato tutto inaspettato anche se fin dal primo giorno sul set si percepiva una certa aria di importanza. Eravamo tutti in questa bolla magica, con la consapevolezza che stavamo raccontando cose molte importanti, certo non avremmo mai immaginato di salire, un giorno, sul palco dell’Ariston».

Tre aggettivi che la descrivono fuori dal set?

«Sarò banale ma quello che sono è un attore. In quanto tale non so minimamente chi sono. Sono sempre, per fortuna, in panni di altri personaggi ed è molto bello. Mi sento al sicuro, perché sono coperto da un qualcosa, da qualcuno che non sono io».

Tra l’inizio della passione per lo spettacolo ed i primi ruoli, cosa c’è stato? 

«Sicuramente c’è stato tanto studio ed è molto importante nello studio della recitazione. C’è una parte di istinto importante, che non si impara, è innata. Io nel tempo ho imparato a fare degli spettacoli a teatro e quando avevo 15 anni ho scoperto l’esistenza di questo metodo Stanislavskij, questo metodo che ti apriva ad un mondo introspettivo nei personaggi, un po’ distante dal mondo tecnico del teatro. E da lì mi sono trasferito a Milano dove ho iniziato a studiare con diversi insegnanti, come Maicol Margotta, Susane Bazzo in America, Francesca De Sapio a Roma e da lì non ho mai lasciato questo metodo. Ci sono ovviamente varie fasi. Personalmente è stata la chiave. Il primo ruolo che ho interpretato, all’età di 17 anni, è stato per The Happy Prince, di Rupert Everett. Un film americano che racconta gli ultimi anni di vita di Oscar Wilde con tantissimi attori e attrici di assoluto livello. Un battesimo folgorante e un bel sogno che si realizzava».

A proposito di sogni: ne ha altri?

«Se proprio devo spararla grossa, mi piacerebbe arrivare in America, all’Academy, agli Oscar. Ma ho questo piccolo problema di essere italiano e non americano… Quindi mi accontento anche dell’Italia. Ho fatto una promessa a mia nonna, che non c’è più, che un giorno avrei vinto un David di Donatello per un film. Per lei era una cosa bellissima ed importantissima. Ed il primissimo sogno che vorrei realizzare è questo. Ovviamente lo vorrei dedicare a lei. Per poi andare oltre!»

Prossimi progetti?

«Diabolik 3 al cinema tra qualche giorno, Noi siamo Leggenda, una serie per Rai 2 e Prime Video.  E Il caso Claps che racconta un caso di cronaca che andrà in onda su Rai 1 e BBC».

Pubblicato sul settimanale Visto

Sante Cossentino

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