L’inferno di Beirut: l’esplosione che squarcia il Libano

La tragedia del porto di Beirut ha assestato il colpo finale a un Paese già in ginocchio, devastato dalla crisi economica e dalla disoccupazione. Ora, una difficile risalita fuori dall'incubo

“Chi può lasci la città”. L’invito del ministro della Sanità del Libano, Hamad Hasan, suonava più come un ordine. Colpa della nube tossica che il nitrato d’ammonio, saltato in aria nella serata di ieri in un deposito del porto di Beirut, ha innalzato sulla capitale libanese. Ora quell’allarme lì sembra rientrato. Ma la conta dei danni sarà lunga, quelle delle vittime e dei feriti ancora indefinita. L’unica cosa certa è che la Beirut che si rialzerà dai “funghi” sollevati dal nitrato non sarà più la stessa. Colpita al cuore, là dove, fino a un mese fa, i cittadini scendevano in strada per protestare contro il governo, ritenuto colpevole di una crisi economica che ha messo in ginocchio l’intera Nazione. Il porto di Beirut, il più grande del Paese e centro nevralgico dell’ingresso di merci in Libano, è stato spazzato via. E mentre dal cratere esalano ancora i fumi dell’esplosione, dalla richiesta di un nuovo Libano che ha animato le proteste dell’ultimo anno, si inizia a interrogarsi quale Paese si risveglierà quando le macerie saranno accumulate e i bilanci definiti.

Tragedia a Beirut, le ipotesi in campo

Innanzitutto i dubbi. Perché l’inchiesta aperta dovrà appurare per quale ragione 2.750 tonnellate di pericolosissimo nitrato d’ammonio si trovassero ormai da sei anni in un semplice deposito portuale. Andrà chiarito, inoltre, cosa abbia provocato la prima esplosione. Se davvero si sia trattato di un incendio o se, come sostenuto da qualcuno, possa levarsi l’ombra dell’attentato. Un’ipotesi difficile da valutare, anche se il materiale che ha provocato il disastro rientra fra quello utilizzato dai terroristi. Difficile perché, al netto di coni d’ombra ancora in ballo, le circostanze generali sembrano indurre più sulla pista dell’incuria che dell’atto volontario. Ma, appunto, si resta nel campo delle ipotesi. Ben più certa è la portata materiale di quanto accaduto nel porto di Beirut, con le esplosioni che hanno colpito i principali luoghi di ritrovo della città, importanti sedi di quotidiani e le zone alte di Gemmazye e di Mar Mikhail, residenza dei cittadini stranieri e dei libanesi più benestanti.

Israele ed Hezbollah

Ma non è solo la geografia urbana ad aver risentito dell’onda d’urto delle detonazioni. La dinamica dell’accaduto, le proporzioni del disastro e le tensioni sociali che hanno attraversato in questi mesi il Libano sembravano rientrare nella medesima equazione. Tant’è che, nelle primissime ore dopo la tragedia, era arrivata quasi in contemporanea la smentita su presunti coinvolgimenti sia da parte di Israele che della milizia di Hezbollah. Tel Aviv aveva immediatamente escluso di aver condotto attacchi deliberati a depositi armamentari dell’altra, mentre il gruppo paramilitare di Nasrallah aveva smentito che la responsabilità delle esplosioni fosse da ricondurre a testate missilistiche. Il tutto in un periodo comunque di tensione fra le due forze, tanto che nei giorni scorsi, in zona di confine, alcuni drappelli militari israeliani erano venuti in contatto con alcune milizie sciite, lasciando presagire la possibilità di una resa dei conti, alla stregua di quanto avvenne nei 34 giorni di fuoco tra luglio e agosto del 2006.

Un Paese allo stremo

Almeno per ora, lo scenario sembra non essere questo. Di contro, però, sia le tensioni fra Israele ed Hezbollah che la tragedia del porto di Beirut si inseriscono in un’escalation di destabilizzazione che, ormai, vede il Libano in piena zona d’emergenza. A far paura, oltre al tasso d’inflazione al 250% e un rapporto debito/Pil che sfiora il 170%, è il preponderante avanzamento dello spettro della povertà: un abitante su due del Libano, infatti, vive sulla soglia della povertà, a fronte di un calo occupazionale che (dati Ispi) si attesta al 25%. A incidere, come in altri Paesi, il blocco imposto dal lockdown che, se da un lato ha giocoforza fermato le escandescenze della piazza, dall’altra ha assestato un colpo da k.o. alla piccola e media impresa libanese, in una fase in cui il primo ministro Hassan Diab aveva già annunciato il default e avviato una trattativa complessa con il Fondo monetario internazionale. Sul tavolo, oltre un miliardo di dollari in obbligazioni emesse in valuta estera, che il governo non è riuscito a ripagare, tentando di tamponare l’emorragia economica attraverso una strategia di tassazioni che avevano provocato, come unico risultato, la furia dell’intero tessuto civile.

Una fase delicata

Per il Libano si mobilita la Comunità internazionale. Il comparto sanitario del Paese non sembra in grado di far fronte a un’emergenza di tali proporzioni (visti anche i due ospedali distrutti) né di rispondere alle immediate esigenze di una cittadinanza in bilico fra la crisi economica e la rabbia sociale. Che, vista la situazione, rischia di esplodere probabilmente con più violenza, specie se le ipotesi di negligenza e incuria (al netto delle dichiarazioni della classe dirigente del Paese e degli arresti degli ufficiali portuali) fosse confermata. In tal caso, sarebbe complicato rispondere alle istanze di una popolazione che, ormai da mesi, chiede un ricambio amministrativo e nuove politiche volte a fornire risposte concrete a un Paese ormai allo stremo delle forze. Una fase estremamente delicata, in cui anche l’offerta di aiuti umanitari da parte di Israele può essere letta come un ulteriore tassello di fallimento. Politico e sociale.