La Pacchiona, il dramma della diversità è la paura

Uno spettacolo teatrale che lascia il suo finale sospeso, interrogando gli spettatori e chiedendo loro una risposta. Il regista Marcello Cotugno racconta "La Pacchiona"

La Pacchiona
Foto © Antonio Parrinello

La bellezza come cliché. Negli Stati Uniti come in Sicilia, e come in ogni altra parte del mondo. Il canone del bello, forse, non è stato poi superato dalla progressione della società contemporanea. Adeguarsi al diverso, mettere da parte la paura, apprezzare l’altro nel suo essere più che nel suo apparire. Sulla carta, atteggiamenti consuetudinari. All’atto pratico, un confronto continuo con una visione stereotipata ancora dura a morire. La Pacchiona, spettacolo firmato dal regista Marcello Cotugno e versione siciliana del classico di Neil LaBute, Fat pig, è più di un dramma teatrale. E’ un vero e proprio invito a guardare allo specchio se stessi attraverso l’offerta di una lente d’ingrandimento sulla società in cui viviamo ogni giorno. A sperimentare il confronto con il diverso attraverso l’accoglienza ma anche la consapevolezza dei nostri preconcetti.

Sentimenti dettati dalla paura do essere noi stessi specchio del diverso. E l’espediente del cibo e dell’abbondanza fisica, trapiantato nel sud Italia, diventa un’occasione per accettare noi stessi e vincere la paura dell’altro. Per comprendere che l’accettazione, molto spesso, altro non è che la convivialità di un pranzo domenicale in famiglia.

Marcello Cotugno
Marcello Cotugno

La Pacchiona, a confronto con il regista Marcello Cotugno

Marcello Cotugno, La Pacchiona si presenta come uno spettacolo sospeso. Il ritorno in presenza del pubblico diventa fondamentale perché lo spettacolo chiede a lui stesso di interrogarsi su alcune sfaccettature della nostra società.
“La difficoltà del Sud di integrarsi nonostante non si sia omologati a un cliché di bellezza che la società spesso ci impone. Parliamo di un testo che analizza l’ossessione del contemporaneo per la bellezza, che oggi è intesa come qualcosa che deve essere levigato, come l’i-phone. E lì, dove non si è omologati, chiaramente subentra la paura del diverso. Questo viene analizzato attraverso una storia d’amore particolare: un uomo giovane che si innamora di una ragazza obesa e, nonostante il grande e sincero amore, non riesce a superare questi ostacoli. E’ un messaggio molto vicino a tutti. Chi in un modo, chi in un altro, si è trovato nella sua vita di fronte a queste problematiche. Quello che sempre spero, dal momento che è un testo che non dà risposte, è che queste vengano elaborate dal pubblico”.

Si tratta di una ripresa in chiave siciliana di Fat Pig. Il titolo lo spiega bene…
“La traduzione dall’inglese è stata curata da me e Gianluca Ficca, e poi l’adattamento è stato fatto da noi assieme agli attori della compagnia: Federica Carruba Toscano, Alessandro Lui e Chiara Gambino che sono siciliani e ci hanno aiutati a capire i termini, come quello del titolo che gioca su un doppio senso. Il significato di ‘pacchiona’ differisce fra Palermo e Catania: da una parte ‘donna grassa’, dall’altra “donna bella”. Dà l’idea di quello che è il testo”.

E’ forse più semplice collegare una rappresentazione di questo tipo a un contesto lontano da noi. In Italia, però, assume una diversa collocazione: per vicinanza ma anche perché siamo in un Paese che sulla cucina e il cibo fonda buona parte della sua tradizione.
“Eh sì. Soprattutto al Sud, i pranzi domenicali sono dei rituali ai quali è quasi impossibile sottrarsi. Il mangiare come segno di rispetto e integrazione, luogo di scambio… Ovviamente questo cibo, che può diventare anche rifugio, è un altro simbolo potente, specialmente nel Meridione. Lo spettacolo è ambientato in Sicilia ma io sono napoletano e non è che sia molto diverso”.

Anche a Roma si vive un clima simile…
Sì, vero. Io sono napoletano ma vivo a Roma e posso sicuramente confermare”.

La Pacchiona

Questo aspetto è importante: da un lato c’è una sorta di cultura, dall’altro c’è il mangiare come rifugio ma anche, purtroppo, di veicolo per uno sfogo. E persiste una tendenza a trasferire il tutto nell’ambito di cliché preimpostati.
“L’altra cosa importante è che il testo si iscrive nella drammaturgia contemporanea da un certo punto di vista, con una recitazione razionale, realistica. Abbiamo cercato di costruire una scenografia, con Luigi Ferrigno e Sara Palmieri, che va più verso un’astrazione. Così come le luci, firmate da Gaetano Alamela, che sono non descrittive ma anche più simboliche. E poi c’è anche una chicca: nella colonna sonora vengono citati spesso gli spaghetti western, chiaramente il maestro Ennio Morricone ma non solo loro. E’ una sottile linea rossa che riunisce tutti i linguaggi di questo vertice più metaforico”.

Fra le varie risposte sospese, potrebbe esserci un invito all’accettazione di sé stessi?
“Certamente sì. C’è anche un invito a non aver paura della diversità. Questa è forse la cosa più forte. Da un certo punto di vista, una persona con un problema di obesità può intraprendere un percorso se ne ha voglia. Il testo parla più di quanto la diversità sia un tabù, in qualunque sfaccettatura, anche la disabilità. Tutto questo può diventare qualcosa che ci spaventa, che ci impaurisce. Noi siamo a due passi dal poter diventare una di queste cose che ci tormenta. Tutto questo ci fa paura e tendiamo ad allontanare e allontanarci da tutto questo. Quindi sì, da un lato l’accettazione di sé, dall’altro c’è il cercare di comprendere o almeno essere consapevoli di quale sia la nostra società. Come diceva Tommaso Moro, citato nel testo, avere il coraggio anche di ribellarsi a questi cliché”.

Quindi una descrizione di una società progredita sotto alcuni punti di vista, più vicina con la connessione, ma che quando siamo “in casa” viviamo nei suoi stereotipi più ancestrali…
“Sì, tutto questo è molto più evidente. Ed è anche un problema della nostra epoca. Fino alla fine dell’Ottocento, l’essere in carne era sintomo di salute. Non pesavano nemmeno i bambini perché, chiaramente, chi era magro era povero e chi era grasso era ricco. Poi, a un certo punto, tutto questo è cambiato totalmente. Siamo un po’ schiavi di quest’epoca, sebbene sicuramente le cose siano nettamente migliorate nell’accettazione del proprio corpo. Rispetto alla diversità, invece, siamo ancora un po’ indietro”.

Abbiamo parlato di Tommaso Moro. Il nome della protagonista, Elena, potrebbe essere invece un richiamo omerico a colei che, con la sua bellezza, mise in contrasto due mondi?
“Assolutamente sì. Elena è la donna più bella che scatena la guerra di Troia. E quest’episodio viene citato più volte, con il discorso di Achille di cui parla il protagonista, ma anche con la stessa attrice che racconta delle navi che portano via Elena. Tutto questo perché questa metafora faccia capire al pubblico di star guardando uno storytelling ma anche come questo sia un rimando a pensieri meta-teatrali. Ben al di là di quello che si vede in scena”.