Storia di un’immigrazione fallimentare: tra difficoltà culturali e sociali

La mancanza di comunicazione, la cultura differente, le difficoltà di adattarsi a un diverso modo di vivere: ecco cosa significa per una famiglia emigrare in un altro Paese

Emi Rehana Ferdous è un’operatrice sociale e interculturale presso il centro di ascolto e orientamento Pace Adesso di Bologna. Nel corso della sua professione, ha avuto modo di scoprire le storie di numerose famiglie che hanno deciso di immigrare in Italia alla ricerca di migliori condizioni di vita. Purtroppo, non tutte le storie che ha avuto modo di conoscere hanno avuto un esito positivo: tra di esse, ha riscontrato una presenza di casi di immigrazione fallimentare. In questa intervista, Emi ci racconta quali possono essere le difficoltà di tipo familiare, culturale e sociale per una famiglia che immigra in Italia.

 Storia di un’immigrazione complicata

La famiglia in questione è originaria di una zona del subcontinente indiano dalla quale moltissimi giovani emigrano per ragioni economiche, per ottenere un futuro migliore e per aiutare le loro famiglie. Il nucleo famigliare in questione è composto da padre, madre, figlio maggiore e figlia minore cha chiameremo rispettivamente Ambar, Gita, Bihm e Kajal. Nel raccontare questa storia, è importante fare un accenno ai ruoli che coprono i componenti famigliari menzionando che sono dettati dalla cultura con la quale sono cresciuti Ambar e Kajal. La donna proviene da una famiglia composta da quattro sorelle ed un fratello in cui manca la figura del padre. Il fratello viene quindi visto fin da subito come il principe della famiglia e le sorelle devono obbedire a tutto ciò che egli dice.

Negli anni ’90 Ambar si trasferisce in Europa e poi si sposta in Italia in seguito all’offerta di immigrazione aperta del Paese. Poi, attraverso il ricongiungimento famigliare, lo raggiungono anche Gita e il piccolo Bhim. Dopo qualche tempo arrivano le prime difficoltà: Ambar inizia con il gioco d’azzardo e, quella che inizialmente sembrava una situazione sotto controllo, diventa presto una vera e propria dipendenza. L’uomo non è più in grado di mantenere la famiglia dato che sperpera tutti i soldi che chiede in prestito nel gioco d’azzardo. Arriva poi la secondogenita Kajal, e fin dall’inizio, la piccola vive in un contesto famigliare molto complesso. Il padre continua a giocare e diventa dipendente dall’alcol, i litigi sono all’ordine del giorno e la madre soffre di problemi di salute ai reni. Bhim, che ha otto anni in più di Kajal, è un ragazzo molto intelligente ma purtroppo anche lui risente della situazione famigliare e, al liceo, presenta delle difficoltà nel rendimento scolastico. La madre pone in lui grandi aspettative e, finite le scuole superiori, insiste nell’iscriverlo alla facoltà di ingegneria. Anche il percorso universitario risulta tutt’altro che semplice: il ragazzo per due anni non riesce a dare gli esami e al terzo anno decide di abbandonare gli studi.

Gli unici amici su cui Ambar, Gita, Bhim e Kajal possono contare sono una famiglia che proviene dal loro stesso paese. Purtroppo però anche loro affrontano parecchie difficoltà, soprattutto dal punto di vista della salute. Le due famiglie dipendono l’una dall’altra ma, trovandosi entrambe in situazioni molto instabili, non riescono ad essere di supporto e non chiedono aiuto esterno per paura di essere giudicate. In questo periodo, Kajal raggiunge gli anni dell’adolescenza e affronta una vera e propria crisi psicologica. La ragazza è molto fragile e il suo unico sfogo è la passione per il disegno. Ambar non è in grado di uscire dalle sue dipendenze e le condizioni di salute di Gita diventano sempre più precarie. Come il fratello, Kajal viene iscritta al liceo scientifico che affronta con grandi difficoltà soprattutto dal punto di vista psicologico. La famiglia in passato si era rivolta ai servizi sociali ma non aveva avuto un’esperienza positiva. Per questo, nonostante la signora Emi consigliò loro più volte di tornare dai servizi sociali, non lo fecero. Questo perché temevano di essere trattati in malo modo, per via dei preconcetti che potevano avere: non trovando un punto di riferimento con cui confidarsi, la famiglia aveva perso la fiducia nel servizio. È proprio in questo periodo che Emi incontra casualmente la ragazza e subito percepisce la sua fragilità. Di conseguenza, Emi decide di convocare Gita per parlarle delle condizioni della figlia: per la prima volta, la donna capisce e accetta la difficile situazione psicologica di Kajal. Di comune accordo con la madre, Emi segnala la situazione allo Spazio Giovani che purtroppo non può accogliere la ragazza dato che a breve avrebbe raggiunto la maggiore età. Compiuti i diciott’anni, Kajal viene seguita dal CSM e le vengono prescritti dei farmaci. Per questo, la ragazza è costretta ad abbandonare la scuola e verrà poi iscritta ad un liceo artistico dove potrà inseguire la sua passione per il disegno.

Difficoltà culturali e sociali

L’elemento onnipresente che segue la storia della famiglia è la mancanza di comunicazione sia tra i membri stessi che con le istituzioni. Ambar non è in grado di affrontare da solo le sue problematiche, ha evidente necessità di aiuto da parte delle istituzioni competenti per uscire dal circolo vizioso del gioco e dell’alcolismo. A livello culturale però, Ambar e Gita non sono abituati a chiedere aiuto, anzi, lo percepiscono come un motivo di vergogna. Fin dalla tenera età vengono riposte aspettative troppo ambiziose su Bahim: i genitori non riescono a comprendere le attitudini del figlio e forzano il suo percorso. Lo stesso errore viene commesso con Kajal e ciò ha delle gravi conseguenze per lei dal punto di vista psicologico, che però non vengono riconosciute da parte dei genitori. Manca quindi anche il dialogo tra i membri della famiglia stessa: i genitori non riescono a comprendere la situazione dei figli, specialmente in un’età difficile come quella dell’adolescenza. Ci sono troppi taboo che sfociano poi in gravi problematiche difficili da superare senza un aiuto esterno. Il pensiero di ciò che potrebbero dire le altre famiglie in merito alla loro situazione, ha portato Ambar e Gita ad un punto di non ritorno, anni di sofferenza e ripercussioni sui figli. L’immigrazione è stato per loro motivo di grande dolore.

Emi sottolinea il fatto che spesso mancano dei punti di riferimento per gli immigrati, specialmente fin dagli inizi del loro percorso. Sono scarsi i centri che organizzano incontri di orientamento per le famiglie e purtroppo nelle scuole sono carenti le iniziative interculturali. Le scuole dovrebbero diventare un luogo in cui viene offerto un punto di riferimento anche per i genitori di famiglie immigrate, specialmente per dar loro sostegno e creare una rete di conoscenze e rapporti con il fine di far integrare al meglio la famiglia nella comunità. Spesso sono presenti dei centri che però non sono preparati in merito al tema dell’immigrazione, che quindi sono impossibilitati ad accogliere le richieste di aiuto.

Emigrare in un paese completamente diverso da quello da cui si proviene è un’impresa complicata che spesso porta ad affrontare difficoltà che non possono essere risolte autonomamente. Nell’interesse della nostra società, c’è la necessità di centri volti ad ascoltare le richieste d’aiuto di coloro che si trovano in queste situazioni, dando loro supporto. Coloro che hanno già avuto modo di intraprendere questo percorso, dovrebbero essere un punto di riferimento per i nuovi arrivati in modo da rendere il loro percorso un’immigrazione che, nonostante le difficoltà, sia di successo.

Beatrice Koci è tirocinante della cooperativa sociale Volunteer in The World